La cultura e il turismo in Italia valgono quasi il 13% del Prodotto Interno Lordo (PIL) nazionale.
Siamo primi al mondo (al mondo!) per numero di musei e per numero di siti UNESCO.
Non solo primati positivi, siamo infatti tra i primi a livello europeo per analfabetismo funzionale e numero di disoccupati. Ecco che in un paese normale, visti questi dati, un ministro della cultura (magari parlando anche con quello dell’economia) avanzerebbe la semplice proposta in cui il perno su cui far ruotare l’intero piano di rilancio di ripartenza sarebbe la cultura stessa, intesa come tutto il nostro patrimonio tangibile (siti, musei…) e intangibile (attività, tradizioni, festival…).
E invece in Italia succede che il Recovery Fund, o Next Generation EU come lo ha battezzato la Commissione europea, ovvero lo strumento pensato per la ripresa approvato dal Consiglio Europeo lo scorso luglio, destina solo 1,6 per cento al comparto della cultura ovvero 3,1 miliardi di euro dei quasi 200 che arriveranno all’Italia, nonostante lo scorso maggio Franceschini avesse annunciato che cultura e turismo sarebbero stati il cuore del progetto di sviluppo del paese. Una bella batosta considerando che i mancati ricavi per il settore si contano essere circa 100 miliardi di euro e 16 per quello alberghiero con più del 50 per cento dei turisti in meno rispetto al 2019.
D’altronde le forze Mibact erano impegnate a pensare e registrare il nome della “Netflix della Cultura”, nome ancora segreto ma che assicurano essere molto bello. Sì, davvero tutto molto bello, ma ne abbiamo bisogno? Ripartirà la cultura con una piattaforma a pagamento “divisa in canali dedicati alle arti, come ad esempio l’opera, il teatro, la musica anche pop non solo classica, l’arte ospitando i principali musei e aperta anche a singole esperienze”? Chiediamo per un amico, o per diversi amici, che dovranno pensare a come produrre i contenuti per questa piattaforma…
Ma di investimenti in produzioni non si parla ancora: come racconta Oliviero Ponte di Pino su Ateatro “L’investimento sarebbe poco più di 20 milioni di euro. Per avere un termine di paragone, Netflix, “la piattaforma guidata da Reed Hastings (…) ha investito 17,3 miliardi di dollari nel 2020 per le produzioni originali (200 milioni solo lo scorso anno in Italia), Hbo Max due miliardi, Apple Tv+ un miliardo”. Anche Aldo Grasso, sulle pagine del “Corriere della Sera”, è perplesso: “Ma non c’è già Rai Cultura, finanziata con i soldi dei contribuenti? Non c’è già un deposito di visioni capace di aiutarci a capire l’identità di un Paese e di un’epoca? Non era meglio, inventando magari una nuova struttura, potenziare il patrimonio delle Teche (Rai, Luce, cineteca di Bologna…), di Rai Cultura, di Rai5 al limite creare un consorzio anche con Sky Arte per un’offerta davvero significativa?”. In clima di spending review, risale solo a poche settimane fa la polemica sulla possibile chiusura di Rai Storia, che volevano accorpare a Rai5…
Ma d’altronde non potevamo aspettarci molto di più, visto come è stato trattato l’intero comparto culturale in questi 10 mesi di pandemia: teatri, cinema e musei i primi a chiudere lo scorso marzo e gli ultimi a riaprire a giugno. Subito richiusi nella seconda ondata di ottobre e neanche citati nell’ultima comunicazione ufficiale di Conte lo scorso 3 dicembre.
Ma consoliamoci, da gennaio possiamo tornare a sciare.
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