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Il Pride oggi: una questione di orgoglio, patrocini e superamento di norme
Attualità
E di colpo venne il mese di giugno, il mese del Pride. È il periodo in cui le città cambiano aspetto, le strade si riempiono, si colorano, si animano di musica, di arte e di marce. Una moltitudine di identità si manifesta, si riversa in una vastissima concomitanza di eventi, mostre, talk, concerti, spettacoli teatrali che hanno lo scopo di sottolineare la pluralità di soggetti e di forme che si mischiano in un unicum culturale ampio. Il Pride, con il suo corteo e i suoi eventi satelliti, urla una chiara realtà: la cultura è libertà e non ci può essere libertà senza diritti. Era giugno quando New York, nel 1969, divenne il palcoscenico di una serie di rivolte e proteste da parte della comunità LGBTQI+ in risposta agli abusi della polizia e all’oppressione politica e sociale che le persone queer subivano. Da allora, le celebrazioni si sono diffuse in tutto il mondo e il Pride è diventato un simbolo di libertà, di espressione, di diversità, di uguaglianza, di unità e di pluralità. Un momento di lotta pacifica, di disobbedienza civile, di fuoriuscita dalle strette maglie imposte dalla società. Strade che non solo si riempiono di voci, ma che mutano in una realtà spettacolare, dove performance e vita si uniscono, dove danzare e marciare hanno lo stesso significato, dove esprimere il proprio atto creativo e il proprio modo d’essere si libera.
Ha fatto molto discutere la notizia della revoca del patrocinio del Roma Pride avvenuto il 10 giugno da parte della Regione Lazio, sulla mancanza di un rappresentante ufficiale del Consiglio Regionale alla celebrazione del Milano Pride del 24 giugno e sul rifiuto del patrocinio da parte della Regione Lombardia. Questi passi indietro, questa mancanza di sostegno ai diritti, riflettono una chiara manifestazione di intolleranza, un distaccamento dalla cultura, dalle idee fluide che generano mondi vasti, liberi e non disposti da norme invalidanti. Viviamo ormai in una realtà ampia, interconnessa, ricca di forme e identità. Abbiamo visto la tecnologia evolversi rapidamente, la scienza e la medicina fare scoperte straordinarie, una realtà iperconnessa e instancabile che si proietta verso mondi digitali, realtà aumentata, intelligenza artificiale. Un mondo che promuove cibi nuovi ed etici, e un substrato sociale ricchissimo di contaminazioni culturali e identità altre. Tuttavia, quasi anacronisticamente, i diritti spaventano.
Lecito chiedersi, quindi, come mai i diritti spaventano così tanto? Perché amiamo il progresso, ma le istituzioni non accettano la libertà di espressione identitaria? Cosa ci terrorizza delle “diversità”? Ordinare, controllare, selezionare, accettare, sopprimere, picchiare, governare, sedurre, sfruttare, limitare, ridurre, depotenziare, contrapporre, polarizzare e posizionare sono tutte azioni compiute sui corpi, sulle identità altre che sbordano dai confini imposti. Sono soggetti scomodi per la norma, difficili da incasellare e che mettono in crisi una puntuale realtà egemonica. È proprio la norma istituzionale che il Pride e le rivendicazioni identitarie mettono in discussione. Nel mondo tutto va bene purché sia “normale”, purché sia definito e imposto da codici polarizzanti che limitano la creatività dell’essere. Norme che impongono come ci si deve esprimere, quale ruolo sociale si deve ricoprire, cosa si può fare o non fare col proprio corpo, chi si può amare e chi no. Queste norme diventano intoccabili, talmente esasperate da diventare sacre. È questo forse il motivo per cui i diritti spaventano così tanto, perché se la norma decade e i diritti si estendono, il tradizionale privilegio dettato da una millenaria cultura di stampo patriarcale e bianco sarà minato.
Occorre rimpossessarsi della “norma”, profanarla e restituirla all’uso comune. In questo modo, con un uso del tutto arbitrario, ampio e fluido, essa può farsi carico di tutte le identità e superare polarismi e discriminazioni limitanti. Serve spezzare quei codici normativi, superarli a colpi di libertà, di colori e di vita, occorre gettarsi nella “danza del pan-pan” scomponendo la realtà e formando nuovi paesaggi vibranti. Più di prima e mai come prima, le città hanno bisogno di colorarsi, di mostrare il loro carattere polimorfo, ampio e plurimo. Bisogna riempire la città d’arte, di vita e di cultura, riversando nello spazio i nostri diritti, i nostri corpi e le nostre polimorfe possibilità d’essere. Urge che “sotto la nebbia bruna di un’alba invernale” (T.S. Eliot, The Waste Land, 1922) si faccia vibrare di vita il mondo, respirando e non sospirando.