Tu vuò fà l’americano…ma sì nato in Italy, diceva una canzone. L’America è messa male per il virus, ma sta facendo qualcosa. Cioè l’esatto contrario di quello che avviene in Italia, loro danno i soldi agli artisti, mentre qui invece si chiede agli artisti di donare le loro opere per l’emergenza.
Nonostante l’ospedale a Central Park, le fosse comuni e il record di morti per il virus, in America l’arte contemporanea si sostiene. Che sia una scelta poetica, patriottica o economica, i fatti (e i soldi) sono questi. Si afferma così che gli artisti visivi contemporanei sono un’eccellenza di un Paese. Che una parte della classe dirigente, nell’era di Trump, riesca in qualche modo a comprendere che c’è un’arte contemporanea (che non è certo quella del gusto popolare e condiviso dalla gente, della TV e dei media generalisti) che va comunque difesa e sostenuta, vuole dire che, nonostante tutto, è ancora un Paese dove ci sono idee chiare sulla cultura e ci condanna a essere una provincia: proprio noi, che eravamo il paese dell’arte.
Certo, si dirà che loro non hanno un passato come noi oppure che ci sono grandi differenze non sempre positive (tanti milioni di poveri) ma il punto è che delle fondazioni private prendono in considerazione gli artisti (tutti inclusi) come delle persone reali, mentre invece qui vengono visti con diffidenza e solo come una strana eccezione a cui chiedere idee nei momenti del bisogno.
Che l’unica iniziativa per l’arte a un pubblico ampio, in questi anni, sia stata la richiesta agli artisti di produrre un’opera gratuitamente per il supplemento La Lettura del Corriere della Sera, è la conferma di questa distanza. Nemmeno La Repubblica si è azzardata ad avventurarsi in tale audacia: per un suo Robinson speciale dedicato al tempo del virus Corona, ha chiamato giusto degli illustratori, tanto gli artisti sono dei marziani, deliziando i suoi lettori con Zagor che ammazza il virus, Dylan Dog con la mascherina e Zerocalcare che dice «Daje» (e che deve mai dire Zerocalcare, il nuova vate della sinistra?).
Nello scorso Affari e Finanza de La Repubblica, è apparso un titolo dalle previsioni non rosee: «Cambio di rotta delle Fondazioni: meno cultura, più welfare e sanità» e sopra una foto – quasi metà pagina – della mostra “Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna” a Milano, un bel biglietto da visita della collaborazione Banca Intesa-Cariplo. Scelta curiosa, perché si rappresenta la cultura (che è il soggetto della notizia) con la bellezza per antonomasia, con la foto del gran salone di Piazza Scala con i capolavori dei due scultori. E forse è proprio vissuto così, dal Paese, il senso della cultura, giusto da vedere e ammirare con meraviglia.
Vicini al precipizio che ci attende, si può cercare di comprendere il significato di quell’accostamento che ha qualcosa di profetico: non ci è dato di sapere se il senso della pagina vada inteso come «di quelle mostre ne vedremo sempre meno» oppure «di mostre ne vedremo sempre meno», tuttavia è interessante che si rappresenti la cultura, prima della cura da cavallo, con un’immagine di una bella sala, di una bella mostra, con delle belle statue su dei bei piedistalli che sembrano di velluto.
È questo che rappresenta la cultura e l’arte? “Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna” è accompagnata dal video La fabbrica della bellezza che, in fondo, racconta una storia di sfida e successo di due artisti che per esaudire le richieste dei signori di tutto il mondo, si misero a fabbricare la bellezza, nei loro atelier a Roma, proprio come avviene oggi negli studi di Jeff Koons e Damien Hirst (nominati nel video in questione). Il grande cambiamento fu l’idea di riprodurre le opere d’arte per soddisfare il mercato. Come suggerisce il filmato, sembrerebbe che il fine di tali armonie e grazie, panneggi e coroncine, amorini e corpi sospesi, sia l’idea di moltiplicarli per farne una produzione seriale, una catena di montaggio. Una grande storia di impresa del lusso.
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