«Ma un giorno anch’io, se mai potrò, esplorerò la riva lassù! Fuori dal mar. Come vorrei vivere là». Il remake live action di uno dei classici più amati di sempre approda sulla piattaforma streaming Disney+ il 6 settembre: The Little Mermaid, La Sirenetta.
E come di consueto non sono mancate le polemiche: il popolo del web si è indignato perché Ariel è interpretata dall’attrice e cantante afroamericana Halle Bailey (come se potesse esserci una rappresentazione realistica del colore della pelle di una donna-pesce che vive in fondo al mare il cui migliore amico è un granchio parlante). Uno sfregio al consolidato candore della fanciulla spiaggiata sugli algidi scogli immaginati da Andersen? Una comprensibile auto censura per mettere al riparo il centenario dalle accuse di xenofobia? Niente di niente; è tutto voluto.
La ‘ditta’ non teme la cancel culture, perché la pratica da sempre. Hanno fatto più per l’inclusione le pellicole della Pixar che tutte le proteste di questi anni. Con buona pace dei luoghi comuni i prodotti culturali della Disney sprigionano una carica progressista ben superiore alle battaglie dell’engagement intellectuel. E quando l’onda di indignazione sui temi del politicamente corretto è scemata, la discussione è continuata sui testi delle canzoni modificati e riscritti, sull’aspetto inquietante di Flounder e Sebastian, sugli effetti speciali inadeguati…
Ma se silenziamo le polemiche che finiranno presto nel dimenticatoio, cogliamo l’occasione per parlare di uno dei miti più antichi e affascinanti della cultura occidentale: il mito della sirena.
Il grido delle sirene
Nel libro XII dell’Odissea, Circe mette in guardia Ulisse dalle sirene, le creature che «incantano con limpido canto, adagiate sul prato». Nel mito originario, infatti, le sirene seducono mortalmente con il potere del canto e non sono le donne bellissime con la coda di pesce che popolano l’immaginario contemporaneo. Le sirene arcaiche sono creature dal corpo mostruoso e spaventoso, con artigli e ali di uccello, e vivono sulla terra ferma circondate da cadaveri, con «un mucchio di ossa di uomini putridi, con la pelle che raggrinza».
Le sirene si trasformano in creature acquatiche soltanto più tardi. Si suicidano gettandosi negli abissi dopo essere state sconfitte dall’astuto Ulisse che si fa legare all’albero della nave dai suoi compagni di viaggio, per ascoltare la loro voce senza soccombere.
«Quid sirenes cantare sint solitae? Di cosa cantano di solito le sirene» chiede l’imperatore Tiberio ai suoi grammatici. Prima di qualunque contenuto, il richiamo letale della sirena è, come dice Omero, un “grido incessante”, un suono inarticolato e prelinguistico, che incarna la forza inafferrabile e proibita della voce femminile. Queste creature incantatrici rappresentano l’antitesi dell’archetipo della donna ‘sposa e madre’, incarnano la totale alterità, una femminilità incontenibile che minaccia il maschile.
Il mito della sirena contrappone il voluttuoso melos femminile al freddo logos maschile. La seduzione della voce (con il godimento del corpo che porta con sé) è da sempre associata alla figura femminile. Come dimostra la filosofa della differenza Adriana Cavarero nel suo straordinario saggio A più voci, Filosofia dell’espressione vocale – la cui prima edizione compie vent’anni – sono proprio le donne le “creature vocaliche” per eccellenza, da sempre ritenute figure canore e figure corporee. “La donna canta e l’uomo pensa” è lo stereotipo cardine che sta alla base della cultura patriarcale dell’Occidente: la donna è il corpo e la voce, l’uomo è la mente e la parola.
La voce – ha scritto Roland Barthes in suo celebre saggio sul corpo della voce in rapporto alla musica – non è semplice soffio incorporeo, ma «materialità del corpo che sgorga dalla gola, là dove si forgia il metallo fonico». La specificità della voce, dunque, è la sua ‘grana’, legata a una corporeità materica da cui non può essere del tutto separata.
La voce che nasce ‘dentro’ e ‘con’ il corpo, però, è anche sempre ‘fuori’ dal corpo; è un eccesso che va oltre i confini della carne, un surplus che risuona in uno spazio esterno, che entra in relazione a distanza con altri corpi e con altre voci. Una contraddizione sintetizzata mirabilmente dal filosofo sloveno Mladen Dolar che ha definito la voce «carne dell’anima e spiritualità del corpo». Nel vocalico, dunque, c’è l’evocazione di un piacere che ha a che fare con il godimento del corpo: le vibrazioni delle corde vocali seducono e irretiscono chi ascolta in un rapporto di amorosi sensi che eccede il linguaggio, che va oltre il mero aspetto semantico, oltre gli equilibri logici della comunicazione. L’ascoltare implica un rapporto amoroso tra corpi.
In quest’ottica – secondo Cavarero – «la donna che canta è sempre una sirena, ossia una creatura dell’ordine del godimento, estranea all’ordine domestico di figlie e spose» che dà voce ai ritmi del desiderio che la tradizione misogina ha tacitato. «Son streghe che incantano per farci penar. Sirene che cantano per farci affogar» canta spaventato il Figaro mozartiano, mostrificando la libertà femminile di cui si ha paura.
La sirena afona
Dalle sirene-cameriere dell’Ulisse di Joyce al mutismo de Il silenzio delle sirene di Kafka, dal lamento dell’Ondina di Ingeborg Bachmann alla tragica Rusalka di Dvorak, dalla fatale Sirène du Mississipi di Francois Truffaut al romanticismo di Una sirena a Manhattan di Ron Howard, fino a uno dei più bei romanzi distopici italiani, Sirene di Laura Pugno: le donne con la coda di pesce hanno riempito l’immaginario letterario, operistico e cinematografico della modernità.
In un’ennesima metamorfosi, la sirena si è definitivamente trasformata nel perfetto stereotipo del femminile: la donna tout-court forgiata dallo sguardo maschile, la femme fatale dal corpo seducente e ammaliante, l’alterità ambigua e mai perfettamente integrata, sempre esclusa, recalcitrante e solitaria. Il corpo della sirena è il corpo ‘differente’ che l’uomo cerca di imprigionare in una casa di bambola metropolitana, o di portare in secca e recludere nell’aquario protetto di un circo o di un bordello.
E se la voce è il segno della differenza e dell’identità del femminile, senza di essa – che la rende unica e potente – la sirena non può vivere. Nella crudele favola di Christian Andersen, la Sirenetta è privata della voce dalla strega del mare che le taglia la lingua, in cambio delle gambe umane che Ariel tanto desidera, per raggiungere sulla terra l’uomo che ha salvato dal naufragio e di cui si è innamorata. La voce umana è il luogo della differenza. Ogni voce è diversa dall’altra, è unica e irripetibile, richiama l’unicità del soggetto cui appartiene. La voce, diversamente della parola, non è neutra, ma è sempre incarnata in un corpo e porta con sé le vibrazioni e i desideri di quella specifica individualità.
Nella fiaba originale dello scrittore danese non c’è il lieto fine come nella versione edulcorata della Disney: senza la forza della sua voce la Sirenetta non potrà ottenere l’amore del principe né una vita felice in un corpo amputato che non sente proprio. La Sirenetta senza voce è destinata a soccombere e a trasformarsi – mutando forma ancora una volta – in impalpabile schiuma di mare.
Le fatali sirene sono ridotte a un kafkiano silenzio, private del loro potere di seduzione: non possono mostrare la loro differenza, non possono far risuonare la loro voce di fronte a chi vuole neutralizzare la loro unicità, lasciandole inascoltate negli abissi o ammutolite nelle teche.
La sirena afona assomiglia a quella immortalata da Magritte nel suo celebre quadro L’invenzione collettiva in cui l’anatomia della creatura marina è invertita: la parte inferiore del corpo è quello di un’umana e la parte superiore ha le fattezze di un pesce. La sirena magrittiana dal volto di pesce è adagiata sulla spiaggia a boccheggiare, agonizzante fuori dal suo elemento; non ha la possibilità né di respirare né di parlare; con le gambe nude e il sesso visibile, rimane puro corpo esposto allo sguardo rapace del godimento dell’altro. La sirena è perfettamente addomesticata, senza possibilità di parola.
Risuona ancora la domanda che Christian Andersen mette in bocca alla sua piccola sirena innamorata: «Ma se tu prendi la mia voce, che cosa mi rimane?»
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