Come ai tempi di Thomas Mann, aleggia un’aria di pestilenza in città. In quel caso, si trattava del colera asiatico che «mostrato un’accresciuta tendenza a diffondersi e migrare…aveva infuriato in tutto l’Indostan con persistenza e violenza, si era esteso a oriente fin nella Cina…e seguendo le principali strade carovaniere aveva portato i suoi terrori fino a Mosca…l’Europa tremava di vedere il flagello entrare di là, per via di terra, esso, trasportato sui mari dai mercanti siriaci, aveva fatto la sua comparsa in parecchi porti del Mediterraneo…». Nel nostro caso si tratta del Coronavirus, giunto dalla Cina, tramite rotte aeree che non sono state preventivamente deviate, o meglio interrotte, e la diffusione del morbo ha seguito il medesimo destino. Il Covid-19 è così giunto a Venezia, in modo sordido e sottile, come d’altronde nel resto del Veneto.
La regione, insieme alla Lombardia, è stata per prima colpita dal virus, anche se sono state prese il prima possibile adeguate misure di contenimento dal Presidente Zaia, facendo percepire in modo immediato un’aria pesante, malata, non al punto dell’«odore di medicinale, che evocava miseria» della Venezia di Mann, ma una sensazione di pericolo, seguita alla necessaria prigionia, con qualche giorno di anticipo rispetto al resto del Paese. La chiusura anticipata del Carnevale ha scosso molto, ma ha fatto capire subito a tutti i veneziani che la situazione era grave. E ci siamo adeguati. Era infatti la fine di febbraio quando le gelide notti già erano svuotate dal classico turbinio del periodo di festa.
Di sera, le lunghe calli vuote, le logge sansoviniane di Piazza San Marco che riflettevano il buio, gli anfratti di Castello spogli dello loro ebrezza popolare, il grande campo di San Polo immobile, addomesticato: il silenzio assordante in una città fantasma. Forse è per questo che adesso Venezia sembra che sia un’isola particolarmente felice ed esente dal contagio.
Infatti Venezia, dopo più di un mese dall’inizio dell’emergenza Covid-19, è ancora realmente immobile. Gradualmente sempre più alleggerita dal suo traffico, sono rare le persone che escono e diligenti alle regole. Pochi cauti passeggiatori sotto casa, che giustamente desiderano muovere le gambe per quanto possibile entro i 200 metri, chi va a fare le necessarie spese, senza affollamenti nei negozi, e chi lavora per il benessere del Comune, come gli operatori ecologici: veri angeli di Venezia, solo loro continuano a lavorare alacremente, a suonare per la raccolta differenziata, a farci trovare una città pulita, ordinata, luccicante.
Ma non dovrebbe essere così in tutte le città d’Italia, in questo momento? Certamente, la popolazione veneziana è minima in confronto alle grandi realtà del nostro Paese e, ora che i turisti sono svaniti, è con loro svanita anche la folla. Però i residenti che ci sono, a quante pare, si comportano molto bene. Sarà perché sono stati abituati, nella storia, a essere isolati e autonomi, astuti e ambiziosi, oltre ad aver vissuto gravi pestilenze che hanno minato la loro storia e salute, riuscendo sempre a rialzarsi più forti di prima.
La grandiosa Basilica di Santa Maria della Salute ce lo dimostra: voluta dalla Serenissima come preghiera e ringraziamento alla Vergine per preservare Venezia dalla terribile peste del 1630, è simbolo della resurrezione e gloria della città. Con la sua mole affacciata alla fine del Canal Grande, prima della punta della Dogana, ordina alla popolazione di proteggersi, le si rivolge per un abbraccio benevolo e rassicurante, dicendo di festeggiare una volta che tutto sarà finito, come sa ben fare.
Intanto? Intanto la mobilità in città è lenta, è assicurata dalla polizia che vigila, con serenità e giustizia. Intanto la città, svuotata dal surplus di turismo – attenzione, non di turismo e commercio di cui la città nei secoli ha sempre avuto un frutto e motivo di vitalità, ma di quello becero, di massa, che si incanala nelle calli più celebri, mangia per terra, chiede stupide indicazioni, crea disagio e confusione – sta vivendo una nuova e inconsueta primavera.
Con l’aiuto di un tempo bello e limpido, eccezionalmente secco, di queste calde giornate di inizio aprile, il cielo turchese si riflette nell’acqua della laguna: è di un verde brillante, mai visto. Per la prima volta si riconoscono i colori e contrasti delle vedute del Settecento, ritratti di una città gloriosa: il verde di Bernardo Bellotto, della sua acqua fatta di ondine minuscole e brillanti riflessi dei palazzi, il campo San Giacometto di Canaletto, vuoto di persone eppure centro della vita economica della città, vicino all’attuale Mercato di Rialto; l’orizzonte limpido in cui si intravedono le coste del lido e i profili delle montagne, senza imbarcazioni gigantesche o crociere che ne deturpano l’armonia microclimatica oltre che la visuale, delle vedute di Gaspar van Wittel.
Non vogliamo certo vivere in un quadro, desideriamo ardentemente che la città torni alla sua vitalità, alla magia degli affollamenti per i concerti della Fenice, all’allegria dei canti dei gondolieri, sotto casa. Alla vita dei bacari dove mangiare e bere tutta la notte per poi tornare a piedi, sicuri e spensierati in una città che ti protegge e benevolmente rassicura. A correre liberamente verso i giardini di Sant’Elena, fino alla sua magnifica chiesa romanica, per respirare e fare stretching cullati dalla sensazione di pace di un locus amoenus. A godere degli infiniti tramonti nella fondamenta della Misericordia, verso ovest, che la colorano di rosa e arancio, rendendo perfettamente romantico il momento dell’aperitivo.
A saltare sul battello per andare alla Biennale, immergersi nell’arte contemporanea, vedere persone di stravaganza internazionale – una folla di persone – e non capire molto dei nuovi padiglioni. Sudare e camminare. Visitare d’un fiato la nuova mostra a Palazzo Ducale, rimanerne delusi – ma qualche cosa pur sempre si apprende – dall’arte.
Certo, lo faremo con ingressi contingentati e con i dovuti controlli, come suggerisce Vittorio Sgarbi, per riaprire il prima possibile mostre e musei, appello che altamente condivido e a cui aggiungo le biblioteche e i centri di ricerca, cuore del nostro lavoro. Non possiamo ritenere che il Paese riparta senza il motore della cultura. Ricordiamoci: sono soldi oltre che cultura. Lavoro e passione oltre che arte.
Ma forse, dopo questo periodo di astinenza, di chiusura e vuoto, di noia e pace, di bellezza incontrastata per una città che lo chiedeva, che gridava il bisogno di libertà, saremo più cauti a tornare come prima, a venderla agli stranieri, a lasciarla in mano ai migliori offerenti, a trattarla come un melograno che spreme sangue. Perché non ditemi che la sofferenza della città non si vedeva dalla viscere, prima, e ora non si riconosce quanta bellezza aveva in serbo, al punto che la sta facendo risplendere.
«Quest’era Venezia – racconto di fate e insieme trappola per i forestieri, città nella cui atmosfera corrotta l’arte ebbe in passato un esuberante rigoglio, e i musici composero suadenti melodie che addormentano voluttuosamente». Facciamo sì che nessuno più – Thomas Mann l’ha già fatto – possa descrivere Venezia in questo modo, con parole certamente bellissime ma che esprimono solo la sua sfrenata smania di guadagno. Un appello ai cittadini, ai proprietari, ai commercianti e al governo. Facciamo sì di ripartire con nuova dignità.
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