Categorie: Attualità

Imprevisti dell’arte pubblica a Napoli: il brand si scioglie per il caldo

di - 30 Giugno 2024

A Napoli, l’arte pubblica non ha mai avuto vita facile. Anzi ha dovuto continuamente lottare, superare numerose prove: ambientali, sociali e culturali. I lazzari, gli scugnizzi, il sottoproletariato (ma anche semplicemente i vandali e gli scostumati) hanno sempre considerato la città come terreno di contesa contro chi ha avuto (per diritto o privilegio) la titolarità di decidere (leggi imporre) immagini, iconografie, simboli valevoli per tutta la comunità cittadina.

E tante sono le sventure capitate non solo ai pezzi d’arte ma anche i disagi subiti da coloro che ne erano i responsabili. Alcune, le più celebri. La grande statua in gesso di re Carlo di Borbone al Largo del Mercatello (odierna Piazza Dante), più volte tirata giù da ignoti e più volte ricostruita dai curatori dell’antico mercato di quartiere. L’installazione del 2002 a Piazza Plebiscito dell’artista Rebecca Horn, che non aveva previsto i furti di numerosi esemplari delle 333 capuzzelle (teschi) di ghisa incastonati nel manto della famosa piazza monumentale.

O come il famoso incendio di un anno fa della copia gigante delle Venere degli Stracci dell’artista Michelangelo Pistoletto, prontamente, ostinatamente, ricostruita dall’amministrazione comunale di Gaetano Manfredi. Ennesimo esempio di una città che sa accogliere e respingere, innalzare o abbattere (non a caso il graffitista Jorit, l’artista dei murales dei volti segnati da linee rosse, amato e rispettato dal popolo, non ha quasi mai avuto problemi di vandalismo).

Stavolta però a mettersi di traverso non è stato un atto deliberato, uno sfogo di rabbia o il desiderio di appropriarsi di un raro pezzo d’arte. A rovinare l’opera è stato il Sole. Già, il Sole di Napoli. Proprio lui. O Sole mio. Sì, perché dopo neanche una settimana è stato necessario transennare “Brand Napoli”, un’installazione di 12 pannelli in acciaio inox e vetro dell’architetto Marco Tatafiore che ritraggono le sei lettere della parola “Napoli”.

Il forte caldo ha fatto prima surriscaldare e dilatare i pannelli e poi ha spaccato in alcuni punti i materiali che compongono le lettere. Posta a Piazza Municipio, nei pressi di Via Acton, in un punto dove è possibile ammirare contemporaneamente il Golfo di Napoli, il Vesuvio e il Maschio Angioino, l’opera dovrebbe accogliere i turisti/croceristi che giungono dalle grandi navi ormeggiate al Molo Beverello.

Il progetto, realizzato dalla Intersport Pubblicità di Marco Cicala, è stato prodotto, (recita il comunicato stampa del comune) con l‘obiettivo di «Promuovere ulteriormente» la città e la sua immagine. È l’avverbio a stonare. È come se già nella comunicazione istituzionale ci fosse la consapevolezza di un certo sovraccarico emozionale, di un certo abuso mediatico.

E, aggiungiamo noi, ai limiti del medianico. La santità del San Gennaro di Jorit e del Dios Maradona ai Quartieri Spagnoli; il nettare celeste della pastiera ma soprattutto dei taralli sugna e pepe; il fuoco sacro della pizza fino alla maestosità topologica del Castel dell’Ovo e del palazzo più bello d’Italia, il Palazzo Donn’Anna.

Queste le immagini che svettano nei sei pannelli posteriori dell’installazione, che esprimono un fritto misto antropologico e magico napoletano, il menù definitivo per il turista affamato di emozioni (o affamato tout court) che, appena sbarcato dalla mega navi può già pregustare i piatti, sfogliarli su questa agendina-promemoria costata la bellezza di più di 200mila euro (comprensivi anche della campagna di comunicazione) e già un po’ strappata lungo i bordi.

Anzi, più che strappata “squagliata”, se non addirittura “scolata”. Chi è stato a Napoli infatti non può dimenticare i putridarium, le cripte di alcune antiche chiese (Santa Maria della Sanità, Sant’Anna dei Lombardi, Santa Luciella e altri) dove le salme dei notabili venivano lasciate letteralmente scolare (ripuliti da liquidi, interiora e organi) seduti sulle cantarelle, sedili di tufo provvisti di foro-scolatoio. Una pratica diffusa soprattutto nel medioevo e che simboleggiava un rito di passaggio del corpo, essiccato quanto purificato dai guasti della carne.

Ecco, se a Napoli ci si appropria di certi simboli (la santità, la ritualità del cibo e la potenza simbolica degli ossari, come quello delle Fontanelle ritratte in uno dei pannelli), se si sceglie di giocare la propria partita in uno spazio mistico e misterioso, allora bisogna essere consapevoli di entrare in un altro paradigma fisico, in un cerchio simbolico di azione e reazione alternativi, dove al fenomeno soggiunge l’epifania. Ai limiti della trascendenza come del sentimento popolare. Come avviene per la liquefazione del sangue di San Gennaro. O come una finta di Maradona, «Che scioglie il sangue dint’ ‘e vene».

E quindi è bene prendere questo piccolo evento capitato ai pannelli di Tatafiore come un “avvertimento”, come un brutto presagio? Non esageriamo. Napoli è la patria dell’eccesso, dell’esagerazione, della facezia, dell’amenità. Forse è stato esagerato scrivere NAPOLI in mezzo Napoli? Forse è stato inutile rimarcare ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, luoghi, simboli, pietanze, che ormai sono sulla bocca e negli occhi di tutti? Forse costruire un’installazione in acciaio nella città più calda d’Europa è stata una leggerezza più che una disattenzione progettuale? Forse. Insomma prendiamo questo fenomeno di squagliamento come un gioco, come un gentile ammonimento.

In fondo a Napoli, tra i vicarielli come nei grandi boulevard si augura e si spera sempre nella ciorta, nella buona sorte per tutti. Le cose andranno bene, vedrai. Forse era questa la speranza dell’artista e dell’amministrazione. Che tutto andasse liscio. In un gesto, il più napoletano che c’è. Affidarsi alla ciorta, alla buona sorte. Auguri.

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  • Il fatto che "il popolo" vandalizzi le opere di un artista attento all'educazione come Pistoletto e rispetti un artista di regime (sanguinario) come Jorit la dice lunga sulla "sensibilità" del popolo

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