Categorie: Attualità

Influencer da museo: perché agli Uffizi piace Chiara Ferragni

di - 19 Luglio 2020

Il custode urla a pieni polmoni nel megafono: «Allontanarsi dalla costa!». E poi, a megafono distante ma a voce comunque tonante, come una sconosciuta divinità pagana protettrice delle fonti, una lunga, lunghissima serie di imprecazioni rivolte contro i canoisti che fanno il giro di Posillipo e, tenendo il Vesuvio alle loro spalle, si avvicinano fatalmente troppo alla spiaggia del Parco Sommerso della Gaiola, riserva marina dello Stato dal 2002, Sito culturale dal 2004, contesto portafortuna di vari video di Liberato e imprescindibile sfogo balneare di molti, moltissimi napoletani e turisti. Ma adesso, questa angusta lingua di sabbia incastonata nel tufo è praticamente vuota, almeno rispetto agli standard a cui eravamo abituati. L’accesso è riservato a 75 persone, divise in varie fasce orarie e tassativamente su prenotazione. Questa regola vale anche per chi arriva dal mare, che sia canoa, canotto, kayak o gommone. E la ridotta presenza antropica sembra rendere lo spazio ancora più fotogenico, instagrammabile, esclusivo. L’occasione è buona e inconsueta, per questa giovane coppia di aspiranti influencer, bellissimi e scolpiti, dotati di costumi da paradiso tropicale e attrezzatura da immagine, smartphone con obbiettivi e selfie stick, go-pro con fascette e treppiedi. Quante visualizzazioni otterrà la loro fotografia, progettata particolare su particolare. Basta uno scroll, per ritrovarsi in un flusso che non è affatto altro dal momento che stai vivendo. Nel preciso frattempo – questo avverbio che è diventato segnante del 2020 – che il custode sbraita, che il canoista punta i remi, che l’acqua si increspa, che la signora sfoglia il libro, che il signore fruga nella di lei borsa alla ricerca disperata della crema protettiva, sta succedendo che Chiara Ferragni compare in un post degli Uffizi e, come molti eventi che impongono un bivio alla storia, divide il mondo in fazioni. Insomma, siamo pur sempre nella terra dei guelfi e dei ghibellini. A quel punto, impossibile assentarsi, il flusso ti insegue e ti attraversa, ovunque tu sia.

Chiamata da Vogue per uno shooting nelle Gallerie degli Uffizi, il secondo museo più visitato d’Italia – 4,4 milioni di ingressi nel 2019 – Chiara Ferragni ha pubblicato sulla sua pagina Instagram una serie di fotografie dal backstage, con una attenzione particolare alla Venere di Botticelli. E il museo di Firenze, che da qualche mese, sulla scia del lockdown e dell’incitamento del Mibact ad aumentare l’engagement social, non ha lasciato cadere la cosa, anzi. In un lungo post ha elaborato un complesso parallelismo tra i canoni estetici di diverse epoche. Da una parte, l’ideale femminile dalla pelle diafana, magistralmente espresso da Sandro Botticelli, attraverso il volto della nobildonna Simonetta Vespucci, musa ispiratrice del Maestro rinascimentale. Dall’altra, «il mito dei follower, la divinità contemporanea nell’era dei social», Chiara Ferragni, «fenomeno sociologico che raccoglie milioni di seguaci in tutto il mondo, fotografando un’istantanea del nostro tempo». Panico.

Gli apocalittici non l’hanno presa bene e via di anatema. Gli integrati hanno mostrato il pollice. «Immondizia e non per colpa della Ferragni che fa il suo lavoro. Ma della direzione degli Uffizi, che invece non lo fa», ha scritto Tomaso Montanari su Twitter, approfondendo poi il tema in un articolo sul Fatto Quotidiano. «Il problema non è Chiara Ferragni, il problema sono gli Uffizi. L’influencer di Cremona fa il suo mestiere, e lo fa anche assai bene. Ma la domanda è: è giusto, sensato, saggio, che la Galleria degli Uffizi metta tutta la sua arte e la sua storia al servizio della Ferragni?», ha continuato Montanari.

«Queste polemiche nascondono (nemmeno tanto, per la verità) non solo una visione elitaria della cultura, tipica di certi sedicenti rivoluzionari, ma anche un atteggiamento “moralistico”, proprio degli estimatori di uno Stato etico, se non addirittura “teocratico”, che definisca e imponga cosa è bene e cosa è male», è l’intervento di Giuliano Volpe sull’Huffington Post.

In un caso o nell’altro, Chiara Ferragni ha giocato il ruolo che gli eventi le hanno riservato, cioè quello di trend topic. Quindi, buon per lei. E anche per Fedez, che è intervenuto nella vicenda per difendere la moglie, buttando nella mischia Mahmood che, nel video del suo ultimo pezzo, Dorado, recentemente pubblicato, balla nel Museo Egizio di Torino. «Video musicale (bellissimo tra l’altro) di Mamhood girato all’interno del museo Egizio: OK. Chiara Ferragni agli Uffizi: SCANDALO», scrive Fedez, che in quanto a capacità di sintesi ne ha da vendere.

In effetti, il paragone è un po’ traballante. Nel video di Mahmood, le sale del Museo Egizio compaiono come contesto caratterizzante, tra archeologico ed esotico, della canzone, similmente al paesaggio sfumato in lontananza in un’opera d’arte, Panofsky style. Inoltre, vari videoclip, in quanto a cura tecnica, raffinatezza narrativa e audacia sperimentale, hanno molto in comune con la videoarte, che nei musei è già abitualmente esposta. Nelle fotografie di Chiara Ferragni, le opere rinascimentali degli Uffizi sembrano tendere alla scenografia, ma più arredo nel catalogo di un mobilificio che ambiente di una pièce di Ibsen. Mahmood è un cantautore e vende e comunica, anche attraverso il suo corpo e i movimenti che compie, la sua arte. Chiara Ferragni è una influencer, un mestiere al quale il termine di imprenditore non rende giustizia. Perché i termini della trattativa, in questo caso, non risiedono tanto nella produzione di un oggetto concreto quanto nella formazione di un atteggiamento, le cui abitudini, però, siano consumate attraverso una precisa serie di prodotti. Alla fine, anche se le vie sono diverse, non si sfugge dall’acquisto.

E agli Uffizi, questo atteggiamento non può che far brillare gli occhi. Perché, in effetti, cosa volevano e potevano ottenere gli Uffizi? Un risultato da incorniciare, con un ottimo posizionamento nei trends italiani e poi, sul lungo periodo, formare l’abitudine a visitare il museo, diversificare il pubblico, parlare un linguaggio aggiornato, avvicinare fasce sociali normalmente distanti dalla cultura e dall’arte, che non sono affare per pochi ma per molti, che siano il numero maggiore possibile. Non che gli Uffizi soffrano di carenza di fruitori oppure di eccessivi specialismi, di sfilata in sfilata, da quelle della moda a quelle dei visitatori.

Che poi, tutti i musei autonomi, negli ultimi anni – cioè da quando è entrata in vigore la cosiddetta Riforma Franceschini – hanno periodicamente diffuso sui loro canali social corposissimi album di personaggi famosi abbracciati alle opere e ai direttori ma, soprattutto, delle lunghissime file di persone in attesa dell’agognato ingresso, svolazzante biglietto alla mano. Non che fossero particolarmente fotogeniche ma rappresentavano un successo e una conferma sul campo di quanto la politica aveva stabilito: i numeri contano. E se gli assembramenti dei consumatori d’arte sono diventati improvvisamente controversi, accontentiamoci dei like dei prosumer social, per il momento.

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