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Con l’ultimo Dpcm del 25 ottobre, come già riportato su queste pagine, il governo dispone la chiusura di cinema e teatri, con una formula perentoria che vieta “gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto”.
Abbiamo già avuto modo di diffondere qui le prime petizioni di protesta dei lavoratori del settore culturale, cui speriamo sia dato seguito e ascolto.
Ma lo scopo di questa riflessione non è quello di entrare nel merito della scelta politica in sé, né della terribile circostanza che la rende necessaria. Di questa scelta non sono da contestarsi tanto le motivazioni, quanto il suo essere frutto di una dialettica politica ipocrita, ancor più odiosa della chiusura stessa, che gerarchizza, arbitrariamente e senza neppure ammetterlo, le diverse espressioni del sapere umano. Se difatti nel dibattito politico sulla scuola il governo ha protetto le sue posizioni ferocemente, guardando all’eventualità della chiusura delle stesse come alla peggiore delle chimere, il settore culturale a tale confronto non ha neppure avuto il diritto di accedere.
Quali diritti culturali?
L’occasione è preziosa per fotografare il paradosso di un Paese in cui i diritti culturali non meritano neppure di essere oggetto di negoziazione. Si vuole attaccare una retorica politica che si dimostra scadente e deludente ogni qualvolta scelga di rivolgersi all’ambito culturale. E questo avviene perché nessuno, neppure Franceschini, ha il coraggio di dire chiaro e tondo quello che i governi palesano da anni: ovvero che l’arte e le attività culturali sono considerate uno svago, e non estensione di un diritto umano fondamentale. Ne deriva inevitabilmente che, allo stesso modo, nessuna forza politica ha ritenuto che il dibattito sulle attività culturali potesse avere lontanamente a che fare con quello sul diritto all’istruzione.
Non è dunque grave unicamente la scarsa considerazione per i lavoratori del settore culturale (e non ci si riferisce solo agli ultimi mesi), relegati quasi per statuto ad una condizione di perenne precarietà, quanto un atteggiamento generalizzato che evidenzia la palese e scostumata, dunque ancor più vergognosa, noncuranza nei confronti del ruolo educativo del comparto culturale. I beni e le attività culturali hanno pieno diritto di entrare nel dibattito sull’istruzione, ed è gravissimo che ciò non sia successo. La pandemia l’ha reso evidente, e oggi occorre dirlo a gran voce, sperando che questa voce possa giungere a tutti coloro che, per comodità, ipotizzano fittizie scissioni tra ambiti della vita umana che esistono invece in un fluire continuo.
Perché è così importante ribadire la continuità tra queste sfere, scoraggiandone una arbitraria separazione in compartimenti stagni? Perché oggi più che mai lo studio non si fa solo dentro le classi, durante l’orario delle lezioni, nelle modalità stabilite dai protocolli ministeriali. Non si fa solo nelle scuole dell’obbligo e nelle università.
E non solo questa ipocrisia si esprime ai danni di categorie educative precise, come gli studenti di cinema e delle accademie teatrali, del DAMS, di scenografia e via dicendo, ma è anche, di riverbero, nociva per gli studenti tutti. La scuola, in questa crisi globale, deve sentirsi spalleggiata dal settore culturale e dai suoi luoghi, cercando un modo per delocalizzarsi, creando un mutuo supporto, proponendo strategie collaterali e creative ai giovanissimi che si trovano fronteggiare uno stress educativo immane.
I diritti culturali possono e devono essere intesi come estensione e continuità del diritto all’istruzione: li troviamo vicini, agli articoli 26 e 27 della Convenzione Universale dei Diritti Umani del 1948. Cinema e teatro, come anche i musei, sono luoghi di studio a tutti gli effetti, ed è necessario che l’istruzione scolastica mantenga tra le sue finalità la comprensione del ruolo che queste istituzioni hanno nella nostra vita. La partecipazione alla vita culturale della società deve essere incoraggiata e difesa, non tacciata come rinunciabile passatempo. Ed è una mistificazione pensare che un’opera d’arte, teatrale o cinematografica possa essere solo uno strumento conoscitivo autoreferenziale, e non avamposto fondamentale nel processo di educazione alla complessità, imprescindibile strumento critico per comprendere il mondo.