Parliamoci chiaro: l’Italia ha bisogno di modificare, nel medio periodo, una serie di dinamiche che stanno divenendo strutturali e che possono rivelarsi criticità davvero importanti per la nostra democrazia e per la nostra economia.
Abbiamo un saldo demografico in calo; l’età media della nostra popolazione è di 45,2 anni (contro i 41,4 del 2002); i giovani da 0 a 24 anni rappresentano il 23% della popolazione, mentre i senior (dai 60 in su) costituiscono il 29,3%.
Nonostante i “giovani” siano così pochi, fino a qualche mese fa l’Italia era il Paese europeo con più basso tasso di occupazione giovanile e con il più alto tasso di “neet” e uno tra i Paesi con maggior esodo: un tempo di parlava di fuga di cervelli, ma ora bisogna parlare anche di fuga di braccia, mani, e piedi.
Con le aspettative di vita che avanzano, questo si ripercuote anche sui sistemi previdenziali: il nostro sistema pensionistico è sempre più debole e i “contributi” con i quali bisogna pur pagare le “pensioni”, non sono sufficienti.
Questo si ripercuote anche sui costi per la struttura sanitaria (Covid a parte), facendo altresì lievitare i costi dello Stato, con naturale conseguenza che aumenta il peso fiscale sulle famiglie e sulle imprese, con il risultato di minori assunzioni e maggiore economia informale.
E, come se non bastasse, crescono gli anni di formazione, cresce l’età media della prima assunzione, aumenta il ricorso a contratti a tempo determinato o contratti a Partita Iva, con il risultato che si è del tutto snaturata la logica di scelta tra “impiego pubblico” e “impiego privato”. Nel mondo, infatti, le persone devono scegliere se “guadagnare meno” (per il pubblico) ma avere più sicurezza, o andare incontro a maggiore competizione ma guadagnare molto ma molto di più (privato). Con concorsi che si rimandano, assunzioni che latitano, fondi insufficienti, età media dei dirigenti che cresce, il risultato è che i nostri giovani si trovano a dover scegliere tra un impiego privato più incerto e meno retributivo, e un impiego pubblico (che per anni porta ad attendere l’uscita di un concorso e la concreta sua esecuzione tra ricorsi e via dicendo).
Insomma: è ora di darci una piccola smossa, cari italiani.
In primo luogo: dobbiamo fare più figli. La popolazione ha bisogno di crescere di numero e decrescere d’età.
Ma non si fanno figli perché non ci sono le condizioni economiche per farlo: una persona “colta”, “laureata”, e con un po’ di “responsabilità”, probabilmente non farà figli fino a quando non ha una minima certezza di medio periodo (insomma, un flusso di reddito o un capitale risparmiato con il quale poter dar da mangiare a questi figli).
Quindi bisogna abbassare l’età media di prima assunzione e pagare di più i propri dipendenti, condizione che con la maggior parte dei giovani che corrono alla Lidl per comprare e rivendere un paio di scarpe o che fanno i runner per racimolare un po’ di soldi non è propriamente semplice.
E non sarà di certo l’autoimpiego (formula con la quale lo Stato scarica sui cittadini – giovani – la propria incapacità di creare condizioni, facendone pagare anche le spese) a risollevarci.
In tutto ciò, l’Italia presenta un elevatissimo “skill mismatch”, vale a dire che i giovani si “specializzano” in cose che non vengono richieste dalle imprese e dal mercato del lavoro e, contemporaneamente, le figure “aperte” diventano “specializzate”.
Il che significa, detto in poche parole, che alle imprese servono persone con “esperienza” anche nelle mansioni più “operative”, esperienza che i nostri giovani non hanno perché trascorrevano i giorni a studiare su professioni che probabilmente non saranno richieste: normale poi che se “ne vanno”, no?
Se guardiamo all’Unione Europea, la distribuzione delle “lauree” premia Business, Administration and Law, Ingegneria, Manifattura e Costruzione, Salute e Benessere
Se paragonati alla richiesta di lavoro delle imprese (dati Excelsior), vediamo che c’è una certa corrispondenza:
Se invece guardiamo al nostro Paese, le condizioni sono un po’ diverse: dal 2007 al 2016 sono cresciuti i laureati totali di circa il 6% (che nel nostro contesto significa che più ragazzi, nel frattempo, non hanno percepito un reddito da lavoro), quasi del tutto dovuto ad un incremento delle discipline umanistiche (dal 32,5 al 52,9%) mentre le scienze naturali sono aumentate di circa il 10%, e, addirittura, i laureati in ingegneria e architettura sono “scesi” (sebbene di pochi punti percentuali). Soprattutto, nel 2016, la percentuale di occupati “overeducated”, vale a dire persone che hanno “sgobbato” sui libri per poi fare un lavoro che richiede conoscenze inferiori, era il 26%.
Forse è dunque giunto il caso di:
1) Ammettere che non tutti dobbiamo “laurearci”. O meglio, che la Laurea può essere un percorso da intraprendere una volta trovata un’occupazione stabile, percependola “davvero” come un modo per fare poi “carriera”.
2) Spiegare ai ragazzi, già a partire dalla 1° media, quali sono le difficoltà che il nostro Paese deve affrontare, e affrontare con loro una valutazione dei percorsi da realizzare per poter essere “adatti” al contesto.
3) Adottare una struttura che “distribuisca” il rischio di “mancato” valore aggiunto generato su tutti i “settori” che, da questo percorso, traggono beneficio: le Università, e la Scuola, così da non dover poi far ribaltare i costi di una politica educativa sbagliata alle imprese, che si trovano a non poter assumere perché non hanno dipendenti, e pagare di più per i dipendenti che hanno perché i costi prodotti dalla macchina educativa non sono efficaci né efficienti.
Ma questa è solo una provocazione, ovviamente.
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