La scorsa estate, grazie alla partnership di Exibart con il progetto SaloonMilano, sul numero PDF 108 della rivista avevamo ospitato una serie di contributi sul tema della pandemia. Pensieri discordanti o più “moderati”, che raccontavano precisamente come l’essere umano, nella sua accezione naturale, psicologica e politica, aveva reagito alle restrizioni del lockdown, prendendo una posizione, finanche solo intellettuale, contraria o favorevole al sistema, all’informazione, alla “nuova normalità” che ancora ci viene imposta. Tra i contributi pubblicati anche “La democrazia è un progetto” di Giorgio Galli, che vogliamo riproporre oggi in omaggio al grande politologo.
Quando, nel dibattito a una delle “Vetrine” alla Libreria delle Donne, ho detto che la democrazia è un “progetto”, l’affermazione mi pareva piuttosto ovvia. La democrazia letteralmente intesa, “potere” o “governo” del popolo, non è mai esista ed è quasi impossibile che possa esistere, diceva il maggior politologo europeo del XX secolo, il francese Maurice Duverger. Ma il progetto, il far partecipare tutti i membri adulti di una comunità al suo governo, il potere da gestire solo sulla base del consenso, secondo la formulazione che preferisco, balena, intersecandosi con rapporti di genere (uomini e donne), sin dal “miracolo greco”, per giungere alle suffragette inglesi all’inizio dell’Ottocento. Ho documentato questa interpretazione nei successivi libri di trent’anni, sino a Le ribelli della storia (Shake edizioni, 2014). La democrazia assembleare ellenica escludeva le donne, come quella rappresentativa inglese del XVII secolo e persino con la Francia della “gloriosa rivoluzione”: tutti indici del potere patriarcale, sin da quando, millenni prima di Cristo, i cavalieri della steppa avevano travolto la “gilania” di Maria Gijmbutas e di Riane Eisler, la civiltà mutuale ed egualitaria sviluppatasi nell’Antica Europa, tra i Carpazi e il Mar Nero.
Il tramonto del patriarcato è iniziato quando le donne hanno ottenuto il diritto di voto, contemporaneo sviluppo del capitalismo: ed è a questa combinazione (donne, capitalismo, voto nella democrazia rappresentativa), che occorre fare riferimento per valutare se la pandemia del coronavirus possa costituire o meno una svolta epocale. Il capitalismo attuale è quello globalizzato delle grandi multinazionali (circa cinquecento), il periodo che segue i “trent’anni gloriosi” del dopoguerra, del pieno sviluppo del welfare in Europa, mentre la svolta epocale del coronavirus potrebbe capovolgere la tendenza: i decenni successivi hanno visto l’egemonia del cartello delle sette sorelle del petrolio (Big Oil) e, col nuovo millennio, l’egemonia del cartello delle cinque sorelle dell’informatica (Big Data), con un ruolo sempre importante di Big Pharma, il cartello delle multinazionali terapeutiche, i cui scienziati della virologia ritenevano scomparse in Occidente le epidemie, residuo arretrato dell’Africa e della Cina, alla quale veniva riservata la produzione di mascherine.
È vero che la scienza progredisce anche per errori, ma quello che l’epidemia potrebbe far cambiare è la presunzione della sua onnipotenza, in un contesto di revisione di cinquemila anni di patriarcato, cinquecento di capitalismo e di appena cento del diritto di voto delle donne. Se la democrazia è un progetto, cioè potere basato sul consenso, l’egemonia delle multinazionali dell’informatica è la prova di come il consenso possa essere manipolato. E un altro grande politologo, il nordamericano Robert Dahl, ci fornisce una preziosa chiave di lettura. Egli riteneva la democrazia non un progetto, ma una realtà, sia pure in forma rappresentativa e in continua evoluzione. A conclusione dei suoi studi su questo processo, dall’Atene di Pericle, a democrazia solo maschile, agli Stati Uniti di Roosevelt col suffragio, finalmente “universale”, anche femminile, Dahl giungeva alla conclusione che la democrazia dei nostri successori non sarebbe stata, inevitabilmente, quella dei nostri predecessori: o si sarebbe allargata, con un maggior controllo dei cittadini sulle élite al potere; oppure si sarebbe ridotta a forme sempre più oligarchiche.
L’ultimo quarto di secolo ha visto prevalere la seconda tendenza, col vertice delle multinazionali che, manipolando il consenso, col controllo delle sue fonti, dai media alle università (come scrivo in Come si comanda il mondo, edizioni Rubbettino; e Arricchirsi impoverendo, edizioni Mimesis), costruiscono una democrazia soltanto formale (prevista da Dahl: elezioni periodiche, per Parlamenti con sempre meno potere, in Stati con bilanci inferiori a quelli delle maggiori multinazionali).
La svolta epocale, il 2020 della pandemia, potrebbe capovolgere la tendenza: se le multinazionali possono manipolare il consenso, minando il progetto di democrazia, allora sono le multinazionali da controllare, col suffragio finalmente ”universale”, col voto alle donne che è una delle conquiste della presenza di genere in tutti i settori, dall’arte a una scienza, resa più “gilanica” (Riane Eisler) dal tramonto della sua (maschile) presunzione di onnipotenza. Se ci sarà un cambiamento, sarà questo.
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