Ogni tanto ritornano e, in fondo, tutto il mondo è paese. Saggezza dei luoghi comuni che, ancora una volta, ci prendono in pieno, insistendo sulle antiche rivalità tra gli abitanti di questa cara, vecchia Europa. E così, se ad alcuni italiani non va ancora giù che la Gioconda sia esposta al Louvre, anche in Germania Dante non piace. Anzi, meglio essere precisi con le quantità, ad alcuni tedeschi. Ancora più nello specifico, la Divina Commedia non sembra entusiasmare troppo Arno Widmann, polemista noto tra gli ambienti complottardi tedescofoni che, in prima pagina sul Frankfurter Rundschau, quotidiano social-liberale formato tabloid, ha “attaccato” il Sommo Poeta, nel giorno delle sue celebrazioni. A riportare l’articolo è stata La Repubblica, con tanto di titolone indignato che non ha mancato il bersaglio: condiviso sui social, centinaia di commenti sempre più indignati e livorosi nei confronti di Widmann. C’è il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, che dichiara che «l’articolo testimonia completa ignoranza argomento». Quindi interviene anche il Ministro Dario Franceschini che, in stile laconico pop, scrive su Twitter: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». E poi l’immancabile odio del popolo della rete. Almeno, di una parte. Ma quale oltraggio oltraggioso avrà scritto l’empio tedesco?
In effetti, niente di nuovo sotto il primo sole primaverile. Widmann sembra contestare all’Italia la scelta del 25 marzo come giorno ufficiale dedicato a Dante, data individuata dal Ministero della Cultura perché, secondo diversi studi, proprio il 25 marzo fu intrapreso – allegoricamente, si intende – il cammino verso i tre regni. D’altra parte, la questione è sempre stata al centro di accese discussioni tra gli studiosi ma, ovviamente, giusta o sbagliata la data, la scelta è stata soprattutto simbolica. Insomma, un giorno si doveva pur decidere. E comunque, nell’articolo, Widmann non attacca il Ministero della Cultura, piuttosto fa notare che la data è frutto di un calcolo a posteriori, basato su una fonte incerta: la data di nascita di Dante – contrariamente a quella della morte, avvenuta il 14 settembre 1321 – non è certa, si sa l’anno, il 1265, ma non il mese.
Quindi si passa alla questione linguistica, alla dicotomia tra volgare e latino che, però, secondo quanto riporta Widmann, dovrebbe includere un terzo ospite, cioè tenere in debita considerazione l’influenza del provenzale nell’elaborazione dei componimenti poetici dei primi autori che, oggi, vengono considerati i progenitori della letteratura italiana. Un triangolo che, a dire il vero, è abbastanza considerato, della diffusione della lingua trobadorica in varie Regioni della Penisola si sa tanto e non è nulla che non si trovi già in un qualunque discreto manuale di letteratura.
Qualche pietruzza sembra volare giusto quando Widmann cita una presunta parentela della Divina Commedia con la descrizione in lingua araba del viaggio di Maometto nell’aldilà, contenuta nel Libro della Scala che, a sua volta, è una tradizione in spagnolo dell’originale arabo, che non ci è giunto. L’autore cita uno studio dell’arabista spagnolo Miguel Asin Palacios, risalente al 1919, in cui si sosteneva che Dante avesse avuto modo di conoscere il testo arabo, usandolo per i suoi componimenti. Da notare che Widmann non parla di plagio ma dell’utilizzo di una fonte. Anche in questo caso, l’acqua è tiepida: sui viaggi nell’aldilà della letteratura predantesca ci sono volumi su volumi e non per questo si grida allo scandalo.
In verità, un affondo Widmann lo cala solo nel finale, quando chiama in causa Shakespeare, partendo da un saggio di Thomas S. Eliot in cui il poeta e critico letterario, autore del bellissimo The Waste Land, mette in confronto il Bardo con il Sommo. Secondo Widmann, Shakespeare sarebbe più comprensibile da noi contemporanei, più moderno, rispetto a Dante. Perché la moralità del primo era più fluida rispetto a quella granitica del secondo che, nella Divina Commedia, non farebbe altro che tirare una riga arbitraria e soggettiva tra buoni e cattivi. In questo caso, Widmann non solo non scopre nessun velo di Maya ma, più che altro, distorce la storia con un vizio di prospettiva. Semplicemente: possiamo mettere in confronto vis a vis un uomo vissuto nell’Inghilterra del ‘500 – ‘600, tra Tudor e Stuart, con un uomo che si trovò impelagato nelle guerre tra Guelfi e Ghibellini circa trecento anni prima? Lo fece Eliot, raffinato uomo di lettere, per una lettura comparata delle figure retoriche. Per tutti gli altri, meglio stare attenti e certamente evitare di dare giudizi morali, errore fatale nel quale Widmann, non volendo tradire la sua fama di punzecchiatore, inciampa piuttosto ingenuamente, finendo col pungersi da solo, praticamente autoaccusandosi del peccato che imputava al colpevole: il moralismo.
La stessa ingenuità di quegli italiani che si sono indignati e hanno sparso veleno, a partire da un titolo di giornale in caps lock e da una traduzione un po’ approssimativa.
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