La nostra vita non sarà più la stessa. Ecco una delle considerazioni che si sono sentite di più in questi giorni di contagio assediante e clausura difensiva è che dopo, quando arriverà il dopo, nulla sarà come prima, perché saremo costretti a fare diversamente molte delle cose che facevamo.
Certo, non è difficile prevedere che sarà così per molti aspetti della nostra vita sociale e globalizzata, e che queste restrizioni colpiranno essenzialmente quelle libertà individuali di base che, manco a dirlo, causeranno maggiori difficoltà agli individui con meno, o nulle, disponibilità economiche e quindi culturali e quindi politiche. Era già così prima della quarantena, che ha solo reso queste condizioni più nette e percepibili, ed è scontato che continuerà in peggio ad essere così.
Quello che invece faccio più fatica ad immaginare, e che è in stretta relazione con le banali osservazioni appena fatte, è la previsione, o forse dovrei dire meglio la speranza, che riguarda cambiamenti profondi che si produrranno nel sistema economico, politico e anche in quello culturale, legato a doppio filo ai primi due. Si sta così formando una specie di mitologia del dopo.
Ma davvero qualcuno pensa che il capitalismo spaventato sceglierà soluzioni più eque dal punto di vista sociale, che l’economia metterà un freno alle spietate logiche della finanziarizzazione globale, che la cultura, e nel nostro caso specifico l’arte, adotterà logiche diverse da quelle del mercato e dei poteri che si autotutelano in funzione di quello?
Ma soprattutto nessuno di quelli che fanno affermazioni di questo genere dice, o sa dire, quale sia l’alternativa. Cosa sostituirà quella logica di sistema? La risposta si limita, nella maggior parte dei casi, a qualche indefinito richiamo alla profondità, a una qualche non meglio precisata verità e/o spiritualità che dovrebbe recuperare l’arte – da dove poi? Dal suo passato? oppure dagli angoli dimenticati di un presente più distopico che utopico?
Chi pensate che si troverà in maggiori difficoltà sotto lo tsunami della crisi economica che si appresta ad abbattersi su tutti noi? Quali gallerie secondo voi si salveranno? Quali artisti? Quali musei? Quali curatori? e via così.
Non è plausibile pensare che le gallerie medio piccole sopravvivranno, mentre è chiaro che lo faranno le maggiori e gli artisti e i curatori ad esse collegati, così come i musei che avranno bisogno delle loro risorse e soprattutto di quelle dei loro grandi collezionisti oltre, ovviamente, ad interventi poderosi (sic!) da parte degli stati, per quelli che hanno amministrazioni dagli stessi dipendenti.
Il sistema dell’arte dunque si restringerà, almeno per un periodo, e la lotta per entrarne a farne parte sarà ancora più feroce di prima, perché in quel momento più che mai sarà una lotta per la sopravvivenza.
Forse il mio è un eccesso di realismo, anche se dettato dalla semplice considerazione che un sistema per quanto indebolito da una crisi epocale come questa, non è comunque sostituibile da un’alternativa vaga e sentimentale. Se il vuoto non esiste in natura, così come pensava Aristotele, e come in diverso modo ha dimostrato la meccanica quantistica con il principio di indeterminazione di Heisenberg, esso non esiste nemmeno nella sfera del politico-economico-sociale-culturale.
Quindi dovremmo cominciare a riflettere, a parlare e soprattutto a progettare un sistema diversamente regolato, possibilmente migliore, che sostituisca quello esistente del quale certo non ci possiamo dire, e per diverse ragioni, soddisfatti.
Ma un ragionamento del genere, ove mai si fosse davvero decisi ad affrontarlo, dovrebbe partire non dalla cultura e dall’arte ma proprio dalla politica e dall’economia che sulle dinamiche sociali agiscono in modo deterministico. Soprattutto dovremmo a questo punto avere la forza di farlo partendo proprio dal sistema del nostro Paese, assecondando e sfruttando la battuta d’arresto (perlomeno) della globalizzazione.
Passata la fase d’emergenza e le azioni soprattutto economiche, altrettanto emergenziali, messe in atto dal governo, cosa ci dobbiamo attendere? Ma prima di tutto, cosa dobbiamo pretendere come progetto? E non dal governo, ma dalla politica tutta, in modo condiviso o come si dice bipartisan.
Dato per scontato il mantenimento del livello d’investimento sulla sanità e sul welfare determinato dalla pressione dell’emergenza, e stante ovviamente la consapevolezza che una situazione del genere potrà ripresentarsi nel futuro, io credo che sia arrivato davvero il momento di mettere al centro della nostra progettualità nazionale la scuola, l’università, l’alta formazione artistica e la ricerca (proprio quella che oggi stanno definendo, e senza averne merito e diritto, come un’eccellenza italiana), di fianco ad una implementazione diffusa delle nuove tecnologie (proprio quelle che oggi hanno mostrato tutti i limiti sistemici anche solo per l’insegnamento a distanza). Un progetto che preveda dunque un davvero poderoso investimento di risorse, ma che soprattutto sia consapevole della necessità di tempi lunghi sia nell’applicazione che nelle risposte attese. Un tempo calcolabile in almeno un quinquennio, se non un decennio. Un tempo durante il quale la direzione dovrà essere mantenuta, certo verificata e migliorata nel suo farsi, ma governata da una scelta ab initio basata sul principio di necessità appunto condiviso.
Se davvero pensiamo che sia necessario cambiare il sistema dell’arte, e in maniera più estesa quello della cultura, allora dobbiamo cambiare, rendere migliori le persone, gli strumenti e i luoghi dedicati alla formazione, ma nondimeno far sì che siano omogenei su tutto il territorio nazionale, da nord a sud. Perché un sistema della cultura e dell’arte migliore si fonda su un innalzamento del livello culturale tanto di chi fa cultura come di chi ne fruisce.
La politica stessa, che è azione sociale e culturale prima di ogni altra cosa, diventerà così tanto elemento decisivo della spinta migliorativa che beneficiario. Un processo che avrà bisogno, nella stessa misura, della partecipazione concreta del sistema produttivo del Paese, che dall’investimento ne trarrà evidenti vantaggi in termini di risorse umane più qualificate, come ovviamente di consumatori più consapevoli.
Ma ovviamente ci sarebbe anche qualcosa da fare nell’immediato. Mi riferisco in particolare a provvedimenti di tutela e di sostegno a quei lavoratori del sistema culturale, che soprattutto quando non strutturati in attività d’insegnamento e affini, sono del tutto fuori da qualsiasi perimetro difensivo. Parlo naturalmente soprattutto per le arti visive, che conosco meglio. Il genere di lavoro che fanno gli artisti, e a seguire molte delle figure che sono parte decisiva della loro attività, prevede un’attività produttiva che è conseguenza di ricerca, studio, elaborazione, ricerca delle risorse, che per sua natura prevede tempi diversi da quelli di molti altri generi di lavoro. Un aspetto che incide ovviamente sul reddito e di conseguenza sulla qualità stessa della vita. Se, come amano ripetere in ogni occasione politici di aree diverse, siamo davvero il paese della bellezza, perché invece solo di fare riferimento al nostro glorioso passato non si preoccupano di difendere chi la cosiddetta bellezza la realizza oggi? Ci sono cose che si dicono necessarie da anni: una fiscalità adeguata e parametrata per gli artisti e la filiera relativa; l’affidamento gratuito degli edifici pubblici inutilizzati per la realizzazione di studi, spazi di coworking ed espositivi; un welfare che tenga conto della specificità di questi lavoratori.
Visto quello a cui andremo incontro, non è questo il momento di parlarne con serietà e soprattutto di mettere mano a tutto ciò?
Non serve sottolineare, spero, quanto la prima parte del discorso sia connessa a quest’ultima, quanto cioè l’importanza della cultura e dell’arte per una comunità sia direttamente proporzionale alla capacità di apprendimento culturale di quella stessa comunità, che renderà quindi consequenziale difesa e valorizzazione dei “prodotti culturali” e di chi li produce.
Lo so, state pensando che da un feroce realismo sia passato senza soluzione di continuità ad un’ingenua utopia. Anche se spero che non lo stiate davvero pensando, perché se ritenete che tutto ciò sia inutile da pretendere e in definitiva irrealizzabile, allora smettetela di dire e di scrivere che le cose dopo saranno diverse, perché passata la fase post emergenziale sarà tutto esattamente come prima. Anzi peggio.
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