Categorie: Attualità

Dalla piazza ai tetti. La ricerca di socialità oltre i social network

di - 31 Marzo 2020

Dall’altare ai tetti, abbiamo assistito a come una messa sia diventa nuovo teatro di socialità, facendo ritrovare un senso comunità nell’isolamento, oltre i social network. Ma andiamo per ordine.

Dopo il nuovo fenomeno già superato dello “striscionismo”, affacciatosi sui balconi dal Nord al Sud Italia con messaggi di speranza, del tipo “andrà tutto bene”, la città bene-comune più che mai è diventata dispositivo di creatività.
Il claim “Andrà tutto bene” è stato recuperato dai post-it appesi nei negozi chiusi e davanti ai portoni di casa, dove di solito era accompagnato dal disegno di un cuoricino disegnato a mano da anonimi autori in Lombardia, ormai un mese fa; è diventato nei giorni successivi un mantra diffuso dai socialnetwok, e nella realtà urbana è stato siglato e accompagnato da arcobaleni tristanzuoli.

La messa sui tetti di Napoli, fonte: Ansa, foto: Ciro Fusco

L’idea della messa sul tetto

In questo periodo sbalorditivo di emergenza Coronavirus, dopo #iorestoacasa, tra il concerto condiviso dai balconi, la ola serale luminosa con lo schermo del cellulare acceso, le terzine dei flashmob in occasione della Giornata della poesia Dantedì, 25 marzo, data riconosciuta come inizio del viaggio ultraterreno della Commedia, una iniziativa promossa dal Mibact sul canale di YuTube, in occasione del 700° anniversario del sommo poeta, visionario e già virtuale prima di internet, il fatto più interessante della settimana, è stata la messa area sul tetto di una palazzina del novecento a Napoli, in piazza Enrico De Leva, tra i quartieri Arenella e Materdei.
Le chiese sono chiuse e non si celebrano messe, battesimi, matrimoni e funerali, anche se la morte non va in vacanza. Ma tutta la vita è sospesa perché il Coronavirus è eretico, e non rispetta nessuna religione né tanto meno il rituale liturgico cattolico, non si dà la benedizione neppure ai defunti infatti, ai troppi morti in ospedale senza il conforto dei famigliari.
E allora l’idea della messa sul tetto è venuta a Don Lorenzo Fedele (nomen est omen) della chiesa di Santa Maria della Salute: un’azione pensata per venire incontro alle necessità “spirituali” dei suoi parrocchiani. Così tra il sacro e il profano, munito di cassa e altoparlante don Lorenzo nel rispetto delle ordinanze anti coronavirus, ha allestito un altare con il crocifisso e un’immagine sacra sui tetti della sua chiesa, e inutile dirlo, è stato ascoltato dai suoi parrocchiani, molti i giovani, affacciati al balcone o dalla finestra della propria abitazione.

Andrà tutto bene

Il tetto che diventa piazza

La chiesa sul tetto è diventata la piazza, il luogo dell’inclusione, dove tutti insieme hanno suonato e cantato anche dalle finestre per condividere ed esorcizzare la paura, pregando insieme. C’è un certo non so che di ancestrale in tutto ciò, per capirci. D’accordo, questo è un fatto di cronaca, ma non sfugga al lettore un particolare interessante da osservare, ovvero che la messa in scena del rituale in un luogo anomalo, ci spinge a riflettere su come stiamo vivendo gli spazi della socialità nell’epoca della globalizzazione, per soddisfare la necessità di vivere relazioni, spinti dal bisogno atavico di fare comunità, di incontrare e riconoscere “l’altro”, anche in uno scenario cosi claustrofobico come per la prima volta ci troviamo a condividere.
Con-nessione, Con-vivialità, Con-divisione, con-versazione, con-correnza, co-noscenza, con-tagio e altro ancora, hanno in comune il prefisso “co”, che trova da sempre nelle piazze delle città, paesi o borghi: la piazza è il luogo sociale per eccellenza dove l’io cerca l’altro per suggellare un legame simbolico di appartenenza e di comunità. Dalle piazze ai tetti, cambiano gli scenari ma non la ricerca di condivisione di un qualcosa, di una domanda di speranza, di sicurezza, per scongiurare la paura dell’ignoto, esorcizzare l’angoscia. Senza un patto di collaborazione responsabile, il legame originario che ci imbriglia l’uno all’altro, non c’è società e futuro.
Il tetto più vicino al cielo, osservatorio privilegiato, come environment della spiritualità, di relazioni possibili in un contesto inusuale, usato nelle metropoli cult per feste ed esibizioni di DJ, in questo caso non è solo una tipica e colorita espressione del comportamento teatrale dei napoletani, ma un segnale di necessità di coabitazione, di appartenenza, di resilienza contro il contagio, più sopportabile se condiviso come dispositivo emozionale e simbolico.

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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