La National Gallery of Art di Washington, il Museum of Fine Arts di Houston, il Museum of Fine Arts di Boston e la Tate Modern di Londra hanno deciso di rimandare l’ampia retrospettiva dedicata a Philip Guston, in attesa che «il potente messaggio sociale e razziale al centro del suo lavoro possa essere interpretato più chiaramente». Il che, secondo le quattro istituzioni museali, che hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per comunicare la loro decisione, non potrà accadere prima del 2024. In particolare, a spingere gli organizzatori a rimandare la mostra a una data così distante – che in pratica vuol dire rimodularla completamente – sono stati alcuni dipinti nei quali compaiono diverse figure vestite con dei cappucci del tutto simili a quelli del Ku Klux Klan.
Philip Goldstein, conosciuto come Philip Guston, nacque a Montréal, il 27 giugno 1913, in una famiglia di ebrei ucraini in fuga dai pogrom di Odessa. Nel 1919 la famiglia si trasferì da Montréal a Los Angeles, rimanendo vittima dell’ondata di odio razzista perpetrato dal Ku Klux Klan che, proprio in quegli anni, sotto la guida di William Joseph Simmon, doveva riacquistare tristemente vigore, rivolgendo l’odio delle masse povere bianche contro le minoranze – tra cui gli ebrei – e contro la popolazione nera. Nel 1923, il padre di Philip, pressato anche dai debiti, si suicidò.
Una catena di tragici eventi che avrebbero influito nella ricerca del giovane artista che, dopo aver studiato l’arte europea e la filosofia orientale insieme a Jackson Pollock alla Los Angeles Manual Arts High School, iniziò un percorso indipendente e da autodidatta, da un lato, frequentando gruppi politicamente impegnati nell’antifascismo, dall’altro, sintetizzando la lezione dei classici, come Mantegna e Paolo Uccello, con le istanze più attuali della pittura, dai primi tentativi dell’Espressionismo Astratto a una nuova figurazione assolutamente personale.
«In questi dipinti, figure incappucciate e vestite come dei cartoni animati evocano il Ku Klux Klan. Pianificano, tramano, girano in macchina fumando sigari. Non vediamo mai i loro atti di odio. Non sappiamo mai cosa hanno in mente. Ma è chiaro che siamo noi. La nostra negazione, il nostro occultamento», così Philip Guston scriveva delle sue opere, che hanno suggerito prudenza alla Tate Modern e agli altri musei. Una prudenza che però non ha affatto messo a tacere le discussioni e che è sembrata a dir poco eccessiva, se non colpevole, a Mark Godfrey, senior curator della Tate, e a Musa Mayer, figlia dell’artista statunitense, scomparso prematuramente nel 1980.
Tra le opere che avrebbero dovuto essere esposte nella mostra c’era Drawing for Conspirators, nella collezione del Whitney Museum. Nel disegno compaiono la sagoma di un cadavare nero impiccato a un albero e una figura antropomorfa, simile a Gesu, inchiodata a una croce obliqua, circondati da un gruppo di figure incappucciate.
«C’è il rischio che le sue opere possano essere interpretate male e la ricezione sbagliata potrebbe oscurare la totalità del suo lavoro e della sua eredità », si legge nella dichiarazione pubblicata dai musei. «Riconosciamo che il mondo in cui viviamo è molto diverso da quando iniziammo a collaborare per la prima volta a questo progetto, cinque anni fa. Il movimento per la giustizia razziale che ha avuto inizio negli Stati Uniti e si è diffuso in Paesi di tutto il mondo, oltre alle sfide di una crisi sanitaria globale, ci ha portato a fare una pausa», continuano. E pensare che, nel 2017, furono le Gallerie dell’Accademia di Venezia a prendere la “responsabilità ” di restituire alla fruizione – e quindi all’elaborazione pubblica – il pensiero di Guston, con un’ampia mostra di oltre 50 dipinti e 25 disegni, che ricostruivano l’attività del pittore americano tra il 1930 e il 1980.
Godfrey, che per la Tate Modern ha organizzato mostre di grande successo come “Soul of a Nation: Art in the Age of Black Power”, ha commentato che la decisione di posticipare la mostra «è in realtà estremamente paternalistica per gli spettatori, che si presume non siano in grado di apprezzare le sfumature politiche delle opere di Philip Guston». In effetti, una risoluzione così drastica potrebbe sembrare addirittura un paradosso. Probabilmente, proprio in un periodo così complesso, agitato da miriadi di correnti di pensiero in opposizione, progetti espostivi del genere e relativi approfondimenti critici, storici e biografici potrebbero essere utili proprio per affinare il pensiero della collettività .
Di fatto, stabilendo di cancellare la mostra per paura di una paventata ricezione «sbagliata», le istituzioni non solo hanno implicitamente abdicato alla loro legittima funzione interpretativa ma hanno anche ammesso di essere soggette alla pressione di un’opinione pubblica solo virtuale, ipotetica, visto che la decisione non è stata presa a seguito di proteste o manifestazioni concrete, che potrebbero anche essere legittime. Per esempio, abbiamo spesso scritto dei sit-in di Nan Goldin o delle azioni di Michael Rakowitz, che hanno avuto il merito di denunciare e, in alcuni casi, anche di ripulire, la filantropia tossica di molte istituzioni culturali.  In questo caso, invece, la decisione su cosa mostrare – nel senso letterale del termine – è stata presa in seguito a una proiezione calcolata dall’interno, quindi dai pochi che esercitano potere decisionale sulla programmazione espositiva, in base a statistiche, impressioni o chissà cosa altro.
Insomma, potrebbe essere stata una questione di algoritmi e trend topic e, in fondo, c’è poco da stupirsi. Intere campagne elettorali vengono stabilite in base a questi criteri – sono ancora aleatori? – cosa vuoi che sia una mostra.
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