18 novembre 2024

L’arte è politica: forzature e paradossi di un’Italia culturalmente irrisolta

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Il legame tra arte, politica e committenza esiste sin dall’antichità, ma oggi emerge con prepotenza nel dibattito pubblico, portando a galla le storture culturali di un Paese irrisolto

Rae Klein, Fountain of Lies, 2021

Allo scoccare della mezzanotte, il 24 dicembre, tutti entreremo nell’anno Santo del Giubileo. Non di celestiale sembra odorare, però, il clima artistico nella città Eterna, ma di discorde e d’infero. «L’arte è dissacrazione», aveva predetto lo Sgarbi accusato di turpiloquio durante la serata inaugurale dell’Estate al MAXXI, nel luglio 2023. Parole che riecheggiano quelle di Marinetti: «Bisogna sputare ogni giorno sopra l’altare dell’arte», Manifesto del Futurismo, 1914. Fioccano cotidie polemiche sui retroscena della mostra sul Futurismo alla GNAM, sul mancato rinnovo dei contratti ai direttori museali e su scenari limitrofi. Un’impressione: i salotti italiani dell’arte – dimentichi dei coloritissimi scandali della stagione berlusconiana – adottano nei propri giudizi, due pesi e due misure. Quomodo potest tanto candido disappunto a fronte di qualche parolaccia o di un ricambio naturale degli incarichi, se il rovescio della medaglia è – un caso per tutti – acclamare la gigantesca erezione fallica da 200mila euro di Gaetano Pesce, esposta in bella vista in una delle piazze regine di Napoli? Forse, questi due pesi e queste due misure sono lo specchio di un’Italia irrisolta, che si dice democratica, ma non lo è del tutto. Post hoc, appare necessario sottolineare qualcosa che, si sa, è scomodo ammettere.

Gaetano Pesce, Tu si ‘na cosa grande, piazza del Municipio, Napoli

L’arte è politica

Prima ancora dei fasti e capricci di Papi, monarchi e aristocratici nel Barocco, di mercanti, nobili e corporazioni nel Rinascimento, di ecclesiastici e feudatari in età medievale, di imperatori e patrizi in epoca romana, prima che le città-stato dell’antica Grecia finanziassero templi e sculture, nasceva la committenza delle opere d’arte. Ancor prima che l’autorità divina dei faraoni egizi ordinasse di erigere le fatali piramidi, già la Mesopotamia (3000 a.C.), aveva sovrani che incaricavano artisti e artigiani di costruire meraviglie in onore degli dei. Un rapido sguardo retroflesso alla storia è questo, che mette in luce come l’arte sia sempre stata legata alla politica, tra asservimento e critica. Penso anche a coloro che hanno attuato denunce sociali: Brughel il Vecchio, Millet, Courbet, Daumier, Van Gogh, i Macchiaioli, Dix, Grosz, Gericault, Goya, Picasso, Delacroix, de Ribera, Callot, il neorealismo italiano o il realismo sociale USA.

Tale radice di interazione con i governi non cambia. Cambiano le forme di governo, muta il sentire dell’arte ma il legame resta. Oggi ci sono i finanziamenti pubblici e quelli delle fondazioni, i grandi mecenati privati e, a in ambito internazionale, i tycoon che promuovono opere di proprio gusto influenzando l’industria culturale. C’è l’arte pubblica, supportata da enti locali o nazionali, ma soprattutto c’è – sempre – un mondo nel quale l’artista respira e si muove, che entra, anche in maniera inconscia, nella sua produzione.

«È indubbio che sia un atto politico creare un immagine del sé o del collettivo», scriveva sul The Art Newspaper il critico Lewsis Hyde (agosto 2017). Sic Demetrio Paparoni: «L’arte è politica, sempre. Lo è nei regimi totalitari e la chiamiamo propaganda, ma anche nei sistemi democratici […] non esiste arte disimpegnata» (Il Giornale, febbraio 2004). Sed etiam Luca Beatrice, Presidente della Quadriennale di Roma, che – in un’intervista rilasciata nel febbraio 2024 – dichiarava: «Arte e cultura sono sempre state legate alla politica, anzi direi che l’arte è un’espressione della politica e politica. E oggi non ci sono differenze rispetto al passato».

Luca Beatrice, Presidente della Quadriennale di Roma

Trattasi di un legame vitale anche per chi scrive, come, con intuito, ha spiegato Federico Giannini, Direttore di Finestre sull’Arte: «Affermare l’inscindibilità tra arte e politica equivale a ristabilire il ruolo della critica e con essa del giornalismo d’arte nell’ambito della società civile». Lo stesso Fabio Cavallucci, noto critico e curatore, ha incoraggiato gli artisti a misurarsi con un’arte politica che non si limiti a una semplice funzione estetica, ma contribuisca a una comprensione più ampia della società, come accaduto con le opere di Cattelan, Cai Guo-Quiang e Paolini.

Tuttavia le categorie tematiche più riconoscibili nel contemporaneo – femminismo, transgender, ecologismo, post colonialismo, innovazione – sembrano schierate da una sola parte. Il progressismo ha rappresentato finora una parte importante della scena artistica. Un fatto che all’estero non accade: Wyeth, Vettriano, Currin, Hornby, Schnabel, Fischl sono forieri di una pittura che guarda più al passato che al futuro. Ma in Italia, quale artista avrebbe il coraggio di dichiararsi apertamente conservatore, senza temere di essere tacciato come un emulo del Ventennio?

Sandro Chia, esponente della Transavanguardia, espresse, in un’intervista sul cartaceo di Flash Art, il concetto che gli artisti non possano schierarsi che da una sola parte. Poiché – semplificando – alla sinistra sarebbero connessi concetti di apertura e ricerca, alla destra, di chiusura e arretratezza. Dicotomie che paiono dubbie, un po’ manierate, considerando di quanto vitale e vulcanico sperimentalismo si nutrì il movimento futurista che con Mussolini intrecciò più di un legame. Benché, ed è giusto ricordarlo, vi siano stati anche futuristi comunisti, marxisti e leninisti quali Emilio Notte, Emanuele Caracciolo, Mario Carli tra gli altri.                                                                                                

Conformismo dominante e politicizzazione forzata

In un dialogo pubblicato su Cultura Identità nel 2022, Pietrangelo Buttafuoco, attuale Presidente della Biennale di Venezia commentava: «Gli artisti invece di farsi carico del loro ruolo naturale, che è quello di essere sovversivi e sopra le righe (…) sono i guardiani dell’immensa fureria del conformismo e dell’obbedienza. E la sinistra è diventata tale perché (…) Karl Marx affida e destina l’editto della rivoluzione ad un’unica classe: la borghesia. E i borghesi sono a sinistra». Una lettura che può anche non essere condivisa, ma che risponderebbe all’interrogativo in merito al quale oggi si fruisce di una bellezza neutrale o meglio di un’arte alquanto neutralizzata, ovattata. D’altra parte, già da qualche anno, si assiste a un’operazione inversa, equamente distorta rispetto al conformismo, che è la politicizzazione forzata dell’arte contemporanea, ossia il voler “incollare”, a forza, su un tipo di arte o una corrente artistica, un messaggio politico a posteriori che spesso non è inerente con le opere in sé.

Issy Wood, Study fo rhe Bada Bing

«Il fatto che progetti nei quali non siano coinvolte abbastanza donne o non si affrontino determinate tematiche vengono criticati viene più dal mondo americano, dal quale (…) non siamo del tutto immuni», chiosava Luca Beatrice. «Basti guardare alla scorsa Biennale, quella di Cecilia Alemani, che peraltro è metà americana [residente negli Stati Uniti, ndr]». Che si dia opportunità di farsi notare a persone e mondi che non sono stati ancora visti è positivo, che diventi un’ossessione no». In effetti può dirsi un atto di politicizzazione l’aver voluto – in quel latte dei sogni, densissimo di spunti legati a questioni di genere – calare il Surrealismo. Movimento al quale continuano ad attingere giovani artisti del nord Italia, così come giovani leve internazionali: Issy Wood, Dominique Fung, Rae Klein, in ottica abbassata e modernizzata in chiave queer. Sintomo – agli occhi di molti artisti nostrani – di una vena in esaurimento, in lontananza siderale da Maestri quali Ernst, Dalì, Magritte. Opere neosurrealiste che, tuttavia, proprio in virtù della caratura politica che suggeriscono, hanno grosso mercato. Nel frattempo, il femminismo in arte rischia di diventare, e anzi si è già mutato in un fenomeno di massa, un marchio rosa che asseconda le logiche di mercato perdendo la propria semantica originaria, come sottolineato nel saggio di Jennifer Guerra Il femminismo non è un brand (2024).

Copertina del saggio di Jennifer Guerra, Il femminismo non è un brand, 2024

Inclusività e paradossi

Tra fogli di sala e comunicati stampa, quale parola è forse più abusata dell’aggettivo “inclusivo”? Si trova in vetta insieme a “ibrido”, “immersivo” e “interstiziale”. Se si vuol essere davvero inclusivi, allora bisogna che tutto sia incluso e rispettato scacciando le ombre del politicamente corretto e della cancel culture in agguato. Il libro-scandalo di Bocchino, contiene, ad esempio, un capitolo intitolato Contro la dittatura del politicamente corretto. Proprio quella dinamica che lo ha ricoperto di strali! Ci si è lamentati, a ragione, della parabola Sangiuliano, il gaffeur con amante, ma ora resta da capire se le boutade esoteriche del nuovo Ministro della Cultura, che attingono allusivamente a un bacino insidioso, siano davvero così preoccupanti come possono sembrare ad alcuni, o non siano in realtà solo delle provocazioni. Anche Paolo Mieli, non certo destrorso, sostiene sia compito dei cittadini dar fiducia a Giuli, criticato comunque si muova. Prima che il pregiudizio prenda il sopravvento.

Questo continuo baccagliare è la fotografia di un Paese nel quale si vive male la democrazia, si abbocca ai preconcetti, non c’è spirito di dibattito. O si tace o si censura. Non esattamente il ritratto di un sistema inclusivo. L’arte è politica ma, dentro questo legame, deve poter esprimersi tutta, nell’ambito di uno scambio vivace e trasparente entro il quale poter respirare.

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