07 novembre 2024

La verità è che la vittoria di Trump era già scritta nell’immaginario di meme e icone virali

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Excursus iconografico e mediatico dell'ascesa di Donald Trump e della disfatta di Kamala Harris: tra meme, simboli e narrative contrastanti, il ruolo delle immagini nelle elezioni

E alla fine è successo. Di nuovo. Per anni ci siamo illusi che la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 fosse stata un irripetibile errore di sistema. Per anni ci siamo scandalizzati per le scene barbariche dei supporters trumpiani del Tea Party Patriots che invadono e devastano il Campidoglio, guardati a debita distanza dalle forze di sicurezza, colluse o preoccupate di non scatenare una guerra civile. Per anni abbiamo stigmatizzato le sue frasi allucinanti – «Hillary Clinton non ha mai potuto soddisfare suo marito, come pensate possa soddisfare l’America?» – e il suo razzismo sugli immigrati “stupratori” che portano “droga e crimine”, fino al complotto del “riscaldamento globale usato per azzoppare l’economia americana”. Pensavamo di averla sfangata definitivamente. E invece no. Donald J. Trump è ufficialmente il 47esimo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Qualcuno potrebbe pensare che alla fine ci siamo incanalati nel solco del film di Alex Garland, Civil War (2024), dove in un futuro distopico delle milizie americane assaltano la Casa Bianca per fermare un Presidente divenuto un sanguinario dittatore. Sarebbe Trump? Non scherziamo.

The Donald è stato eletto con un complicato quanto antico sistema elettorale risalente al 1845, anno del primo Election day che cade sempre di martedì. È il Presidente voluto dagli americani e come tale va accettato, come ogni buon democratico dovrebbe fare. A prescindere dal fatto che The Donald ha minacciato 10 giorni di conteggi (leggi proteste e riot) se non avesse vinto lui. Ma alla fine, il “foreign body”, il corpo estraneo si è iniettato definitivamente nell’organismo delle istituzioni statunitensi. E ora dovremo farci i conti. Tutti.

Certo, i segnali che qualcosa stesse succedendo c’erano ma andavano letti tra i numeri disastrosi dell’economia americana di questi anni. PIL al 3% ma con una disoccupazione in drammatico aumento, un’inflazione schizzata al 20%, sette milioni di clandestini invisibili in giro per la nazione, esplosione della criminalità, violenza, povertà negli slum delle grandi metropoli. Economia a pezzi ma non solo.

Anche temi sensibili come i diritti civili per le minoranze e la libertà di informazione e d’impresa totalmente estromesse dell’agenda dei Democratici (da qui la presenza di Elon Musk di Space X e Peter Thiel della Palantir Technologies tra i supporter più esagitati del magnate bancarottiere di New York). Metti poi due guerre (Ucraina e Palestina) mal gestite dall’amministrazione Biden, una terza forse in arrivo (Taiwan?), il cambio in corsa del vecchio Presidente con Kamala Harris e la frittata è fatta.

E così ci troviamo a raccontare il crollo del voto liberal nelle grandi metropoli, tra le comunità black e latinoamericani, soprattutto tra i 40 milioni di Gen Z per la prima volta al voto. Tutti elementi che si sono rivelati estremamente difficili da intercettare da un lettore medio europeo.

D’altronde, tutta l’informazione, i segnali che arrivano in Europa, vengono filtrati dai grandi network presenti nelle metropoli americane. New York, San Francisco, Los Angeles, Washington, Boston, Atlanta, Chicago. Grandi gatekeeper attraverso cui “leggiamo” l’America (New York Times, Los Angeles Times, CBS, CNN, NBC) ma che stavolta non hanno saputo restituirci il “pericolo” di una valanga trumpiana. E da qui la nostra totale impreparazione al Main event.

Però a pensarci a bene c’era qualcosa che potevamo cogliere, senza tv, breaking news o commenti di esperti di politica e di tendenza americani. C’era un elemento che mostrava lo strapotere trumpiano. Qualcosa che, in effetti, si è disvelato a cose fatte, mostratosi quasi a livello subcoscienziale ma agente in maniera influente e ora che le cose sono risolte, chiare.

Una prima avvisaglia l’abbiamo avuta con il tentato omicidio di Trump durante un comizio elettorale a Meridian, questo 13 luglio. Il momento si è fissato in un’immagine simbolo. Il sangue, la bandiera che sventola, l’urlo di guerra di Donald. Lì è successo qualcosa nella narrativa iconografica della compagna. Una svolta immaginativa. Lì la Deep America sembra aver preso coscienza del pericolo ma anche del proprio ruolo, del proprio potere. Si è risvegliata, ha iniziato a urlare, aizzata da Trump. Ma, soprattutto, noi non l’abbiamo vista arrivare.

Tutti i riflettori a quel punto sono stati puntati su di lui. Su The Donald, oggetto misterioso, fenomeno capace di attirare su di sé amore e odio, ammirazione e invidie, con un chiacchiericcio mediatico oltre ogni livello conosciuto.

A tal punto che, per dirne una, l’opera Forward disegnata dal celebre artista Shepard Obey Fairey che ritrae la candidata democratica Kamala Harris è rimasto sconosciuto ai più. Quando il precedente caso Hope, il manifesto-ritratto di Barack Obama dello stesso Obey, usato in occasione delle elezioni del 2008, aveva raggiunto una potenza evocativa e iconografica ai limiti dell’agiografia. Totalmente in sordina. Trump ha preso tutto, ogni spazio di comunicazione.

Anche il fortissimo trend “Kamala is BRAT!” (“Kamala è una ragazzaccia”, in senso positivo) lanciato dalla cantante hyperpop Charli XCX attraverso l’album omonimo, non ha avuto grande successo qui in Europa. Il disco ha musicato e dato un’identità armocromatica verde Hulk alla campagna elettorale della candidata democratica ma senza grandi scossoni. Oppure il simbolo delle noci di cocco, protagoniste di un modo di dire della nonna materna di Kamala, che era solita apostrofare i giovani come “caduti da un albero di noci di cocco” (“you think you just fell out of a coconut tree?”).

Tante immagini di supporters di Kamala che si facevano ritrarre con le noci di cocco, che aggiungevano noci di cocco digitali alle proprie foto o ritratti mentre si arrampicavano sulle palme (come il senatore delle Hawaii, Brian Shatz). Qualcuno l’ha visto in giro sul web qui in Europa?

Poca roba. Niente di sconvolgente, nessun vero e proprio “break through”, nessuno sfondamento. D’altronde, Kamala, personaggio energico e volitivo in campagna elettorale, è rimasto nell’ombra del presidente Biden praticamente per tre anni e mezzo. Toni blue navy, aspetto impeccabile, grande seguito da tutte le star di Hollywood e del jet-set musicale americano. Eppure è diventata facile preda di spietata memefication. Kamala capo politico vestita con cappotto e budënovka (tipico cappello di Lenin) rigorosamente rossi, in un’improbabile riunione di un Politburo sovietico. Kamala cheerleader, Kamala personaggio gangsta del videogioco GTA.

E a poco è valso evidentemente rispondere con Kamala Captain America, Kamala Lady Liberty (Statua della libertà), Kamala Boxeur contro Trump sul ring. Ecco proprio questo elemento machista, che calza a pennello sul personaggio Trump, sembra aver attecchito sull’immaginario collettivo americano. Se rimane indimenticabile il match di wrestling del 2007 in cui The Donald picchiava e rasava in mondovisione il boss della WWF Vince McMahon, il magnate americano si è sempre ben prestato a ruoli muscolari: Trump-Balboa, Trump bodybuilder, Trump gigante cyberpunk (Beeple_Crap), Trump commando (armato di AR-15 style-rife, tipico fucile da guerra dei movimenti di destra) e strenuo difensore degli animali domestici, prede ambite, a suo personalissimo parere, di voraci immigrati haitiani presenti in Ohio.

 

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Ma in fondo è questa la cosa incredibile del personaggio. Anche quando viene bersagliato da centinaia di meme (Trump capo di tutti i Villain dei fumetti, Trump-Joker, Trump-Uncle Sam) la sua forza aumenta, il suo carisma non sembra scalfirsi minimamente. Anzi assume forza, potere, capacità di concentrare su di sé ogni cosa, ogni sguardo, ogni pensiero.

Attraverso questa mascolinità tossica, questa fisicità estrema e declinata in ogni dove e in ogni meme c’è, in fondo, ancora, un tentativo di rafforzare un simbolo per difendere l’antico e (ancora imbattuto) pregiudizio di genere, tutto americano. Ai limiti del pregiudizio razziale di una Deep America spaventata dal nuovo e votata tutto all’antico burden del WASP, il maschio bianco vecchio protestate. Mai una donna al potere. Ancor meno se una donna nera. E quindi MAGA. Che sta per “Make America Gretty Again”. Rendere l’America ancora un posto orribile.

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