Quando è esplosa la bomba-corona, lo scorso week end, mi trovavo in campagna. In trentasei ore una scarica di notizie inimmaginabile per qualsiasi altro evento che io ricordi: forse l’11 settembre 2001, 2974 morti, esclusi i dirottatori degli aerei; forse il terremoto dell’Aquila; 309 morti e 80mila sfollati. Coronavirus: 7 morti, dai quadri clinici già complessi.
Non voglio buttare benzina sul fuoco dell’incoscienza, ma nemmeno su quello del terrore. Credo soltanto che – ragionando a mente gelida su questa situazione – semplicemente si potesse evitare di mettere mano al carrello della spesa per comprare 50 litri di acqua in un sol colpo o correre in farmacia per avere mascherine quando ogni medico indica come inutili quando si è in perfetta salute.
Ma, mi chiederete, cosa si può fare contro la paranoia? Probabilmente nulla. E infatti, lunedì 24 febbraio, riprendo un treno per tornare a Milano – che arriva con 40 minuti di ritardo, perché ancora sul luogo dell’incidente ferroviario del 6 febbraio sono in corso accertamenti – e mi aspetto di trovare i rastrellamenti fuori dalla Stazione Centrale.
Mi immagino tirato a forza dentro un furgoncino della celere trasformato in lettiga per gli “sbarcati ferroviari” e costretto a letto in qualche struttura segreta, sottoposto a esami e a cure che rifiuto perché sto benissimo, e così vengo sedato e, da lì, infettato di proposito perché le forze dell’ordine (tutte quelle che indossano una divisa, medici compresi) hanno il DOVERE di costruire una soluzione per la collettività, trovando il famoso caso zero.
È un film mentale distopico, che ho cercato di cancellare prima di immaginarne il finale, ma penso che una trama del genere, rivolta verso il terrore di essere contagiati, additati e isolati, sia girata in testa un po’ a tutti negli ultimi tre giorni.
Nella realtà della vita invece accade che mi fermo in un caffè, e il proprietario è furibondo per come stanno andando gli affari. La stessa scena si ripete poche ore dopo, in una panetteria: tantissimi hanno assaltato i supermercati ma a nessuno è venuto in mente di scendere a comprare un pezzo di focaccia, una pizzetta. Inforco la bici, me ne vado a un appuntamento a Brera, dove stringo mani. Come in altre pochissime circostanze non mi sento ciclista-protagonista di uno sport estremo tra le strade della città: poca folla, meno auto, nessun clacson. In seconda serata cammino a piedi, da Porta Venezia a NoLo; Milano è un fantasma. Nessuna bicicletta davanti al Teatro dell’Elfo, nessun avventore nei terribili locali con dehor sul marciapiede di corso Buenos Aires; i bar – tutti – sbarrati.
È difficile restare indifferenti, così come è difficile non iniziare a girare un altro film mentale e ancora più distopico del precedente. Fino a tre giorni fa ci sarebbe sembrato impossibile immaginare Milano chiusa e in attesa dell’arrivo di una pandemia.
Milano, in questo stato, è lo scenario ideale per avere un attacco di panico che, in materia psicologica, si può definire con il nome generico di panofobia ovvero la paura associata a un male sconosciuto, dunque a qualunque cosa.
Eppure, mentre cammino lungo il mio amato corso Buenos Aires, l’unica arteria milanese che mi ricorda vagamente una avenue newyorchese, penso che non posso certo farmi prendere dal panico ora, stasera! Perché forse qualcuno mi raccoglierebbe, magari mi porterebbe anche al pronto soccorso (ammesso di trovare un eroe che non abbia paura di essere contagiato da qualcosa), e magari inizierebbe la trafila del mio primo film mentale.
No, bisogna mantenere la calma. Eppure il silenzio è quasi assordante, e questa notte di lunedì sembra più silenziosa di un’altra, qualsiasi.
La casella di posta elettronica, nella giornata di martedì, è silente. Continuano a fioccare disdette, appuntamenti slittati come quello del Salone del Mobile, “date da destinarsi”. Poi arrivano meme che fanno sorridere e che stemperano un po’ l’atmosfera, e che vi proponiamo in questo pezzo.
Decido di andare a correre, in un altro luogo del cuore, il Naviglio della Martesana, il naviglio piccolo, che parte da via Melchiorre Gioia e tocca il viale Monza all’altezza di Turro, sale fino al quartiere di Crescenzago e poi esce da Milano verso l’Adda, dal quale nasce, dopo oltre 30 chilometri. Tutti di piste ciclo-pedonali, per chi volesse trovare uno sfogo. Ci sono altri runners, ci sono mamme e nonni con i bambini lasciati a casa da scuola, c’è il solito odore di brioches vicino all’incrocio del parco. Allora, penso, la vita continua; non sono il solo che ha deciso di prendersi un’ora d’aria da questa onda che ha tutte le sembianze di uno shit-storm lanciato sull’intero mondo.
Perdonatemi, ma non riesco a essere preoccupato eppure non riesco nemmeno ad essere indifferente: mi sento colpito da un flagello che nel mio pragmatismo non riconosco; mi sento psicotico nel verso di un’alterazione del pensiero, vittima di un’allucinazione da martellamento mediatico. Mi viene in mente Monica Vitti, in una scena epocale de Il deserto Rosso, in cui esclama: “C’è qualcosa di terribile nella realtà, ma io non so cos’è. E nessuno me lo dice”.
Alla fine di questi giorni, penso, il mondo dovrebbe restituirci qualcosa, o almeno salire sul banco degli imputati con l’accusa di danni morali. O un ritorno rapido alla normalità potrebbe essere un buon “patteggiamento” per questi giorni di fiato sospeso.
E poi, certo, ci sono anche i danni economici. Milano, come ti hanno conciata in tre giorni, me lo ripeto in testa, mentre la tua aria continua a essere irrespirabile (ma nessuno ce lo dice) e sui bordi del naviglio sono fioriti gli alberi – tra cui una mimosa con le sue sfere gialle – e le famose palme che in pianura padana NON possono esistere (secondo la vecchia teoria leghista) hanno i segni del risveglio.
Però oggi, mi dico, è solo il 25 febbraio, non è ancora primavera. Ma io l’aspetto, con i suoi appuntamenti, le inaugurazioni, gli orari e i luoghi dove bisogna correre tutti sovrapposti, stressati ma sorridenti. E così faccio un paio di telefonate che mi rassicurano: che nessuno parli di cancellazioni, tutt’al più di spostamenti. Questa è la vera notizia, pronta a sbucare dal buio non appena l’uragano avrà perso intensità. Ma per ora, anche l’arte, è zitta e alle prese con il suo morale.
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