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A Sadali, in un paesino della Barbagia sarda vi è un bellissimo murales in bianco e nero di Roa, street-artist belga, raffigurante un cinghiale impaurito e legato dalle zampe posteriori al teschio di un altro cinghiale. Sui muri di San Salvario, invece, nella vecchia circoscrizione 8 di Torino, vi sono ritratti altri animali, tra cui uno splendido orso, costruito dal portoghese Bordalo II con gomme, rifiuti e ferraglia. Infine l’enorme airone blu di Iena Cruz, alias Federico Massa, fatto in Airlite (pittura high-tech assorbi smog) in zona Ex Dogana, a Roma. È abbastanza naturale usare animali per i temi ecologici e di sensibilizzazione sociale. Smuovono dentro di noi qualcosa, per lo più energie positive, simpatia. Ma non è sempre così. Per esempio a via Rosellini, Milano, al quartier generale della Lega Serie A, per la campagna “No to Racism”, è stato affidato un lavoro all’artista Simone Fugazzotto che a molti non è piaciuto. Anzi, proprio a nessuno.
Da Sgarbi alla Serie A, tutti contro il malcapitato Fugazzotto
A maggio, l’artista milanese aveva dipinto una tela raffigurante tre scimmie in una sala dello Stadio Olimpico di Roma, durante la finale di Coppa Italia. L’artwork di Fugazzotto poi, nelle intenzioni della Lega Serie A, è diventato l’immagine della campagna «contro ogni discriminazione e razzismo». Letteralmente insorti i social, con duri attacchi di due squadre di serie A, Milan e Roma, questa già coinvolta nel boicottaggio per il caso del titolo “Black Friday” del Corriere dello Sport, e critiche di testate giornalistiche anglofone, dal NYTimes, al Washington Post, passando per la BBC.
Rimasto sorpreso dalla tempistica delle critiche, l’artista milanese ha candidamente dichiarato: «sono sette anni che dipingo scimmie». Bellissime alcune, per lo più scimpanzé ma anche babbuini, tutti antropizzati e ritratti in situazioni diverse, dissonanti. Ce n’è anche una disegnata con mozziconi, scarpe vecchie, bottiglie, stracci, lattine.
L’ idea era quella di dare «uno strumento per difendersi». Se è impossibile evitare che si facciano versi di scimmia negli stadi, Fugazzotto ha provato a spiegare che «allora tutti siamo scimmia, lo sei tu, lo sono io». Nemmeno il calciatore dell’Inter, Romelu Lukaku, è rimasto convinto dal concept, dichiarando il suo sdegno per bocca del suo spin Michael Yorkmark.
Immediate le scuse dell’ad di Lega Serie A, Luigi De Siervo, che ha subito ritirato la proposta. Al di là della rapida lezione di Estetica al telefono di Vittorio Sgarbi al malcapitato artista – «L’opera d’arte dovrebbe parlare senza parola» – capire cosa sia scattato nella mente degli amministratori della Lega quando abbiano scelto Fugazzotto, noto disegnatore di scimmie, è un mistero ma anche una sfida avvincente.
Gli altri casi illustri, tra storia dell’arte e FIGC
La memoria per esempio corre ai primati di Banksy in seduta a Westminster, in Devolved Parliament, battuto per 9 milioni di sterline da Sotheby’s. Devolved significa diffuso ma anche involuto. Non proprio un complimento per i parlamentari britannici cresciuti tra i banchi di Eton e le aule di Oxford.
D’altronde, escludendo l’interesse plastico di alcuni dipinti di Francis Bacon, le scimmie non hanno mai goduto di ottima iconologia. Espressione di menzogna, animalità e incontinenza sessuale per la cultura cristiana, disumane e demoniache a rappresentare gli ugonotti francesi nelle guerre di religione del XVI secolo o come artisti e musicisti parvenu nei Caprichos di Francisco Goya.
Una chiave di lettura ce la dà l’ex direttore generale della BBC, Greg Dyke, che considera la Uefa e le organizzazioni sportive europee «orribilmente bianche». Lavorare in queste istituzioni spesso è un vero e proprio otium frutto di relazioni politiche importanti. Un’orribile sproporzione tra il sudore degli atleti di tutte le latitudini e il numero di vestiti confezionati tra Parigi, Madrid, Roma e Londra.
E infatti, in Italia, abbiamo solo due nomi di rilievo, la calciatrice Sara Gama e l’ex campionessa di salto in lungo Fiona May in FIGC. Ma, di contro, abbiamo una bella galleria degli orrori: il caso dei microfoni spenti in curva per non far sentire i buu razzisti «e non rovinare lo spettacolo», sempre De Siervo. E poi le uscite di presidenti che invitano i loro calciatori «a schiarirsi», Cellino su Mario Balotelli, fino alla celebre frase dell’ex presidente federale Tavecchio sull’ immaginario Optì Pobà, un Jim Crow nostrano, che prima mangiava le banane e «adesso gioca titolare nella Lazio».
Ma l’arte trionfa sempre e, in fondo, Fugazzotto ha ragione da vendere. Il 12 maggio del 1991 ebbi la fortuna di assistere a un intensissimo Napoli – Juventus al San Paolo. Non ho memoria di Careca, di Roberto Baggio o del mio mito, Stefano Tacconi. Ricordo solo gli ululati di un intero stadio che partivano ogni volta che toccava palla il brasiliano Julio Cèsar, migliore in campo. Più del senso di vergogna o di schifo, risento l’ammirazione verso il professionista, il coraggio di quell’uomo. Lui sì, uomo, e ora le vedo, tutte le scimmie sugli spalti.