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La posizione della National Portrait Gallery di Londra nei confronti delle sponsorizzazioni da parte delle società petrolifere, sta diventando decisamente imbarazzante, molto di più dei corpi seminudi e cosparsi di olio degli attivisti di Extinction Rebellion, che domenica hanno dato vita alla loro protesta in una sala della Ondaatje Wing del museo londinese, dove sono allestite alcune opere della collezione, acquistate grazie ai fondi della BP Oil.
Il rapporto tra l’istituzione museale e la compagnia petrolifera è di lunga data e si dirama in vari progetti. Oltre ai fondi di acquisizione, in particolare è stato il BP Portrait Award, il prestigioso premio annuale di ritrattistica pittorica, a finire al centro delle proteste degli ambientalisti già in altre occasioni. L’ultima, pochi mesi fa, a luglio, quando il direttore della National Portrait Gallery, Nicholas Cullinan, si vide recapitare una lettera aperta, firmata dall’artista inglese Gary Hume e da altri 78 nomi del panorama artistico internazionale, tra cui Anish Kapoor, Antony Gormley, Sarah Lucas, Allen Jones e Rachel Whiterhead. Bisogna dire che la National Portrait Gallery aveva già deciso di non accettare più alcuna donazione dal Sackler Trust, il fondo della famiglia proprietaria della casa farmaceutica Purdue Pharma, contro la quale Nan Goldin si è scagliata in più riprese e con ottimi risultati, fortunatamente. Al contrario, non accenna a incrinarsi il rapporto con BP Oil, la società di bandiera e tra le più grandi a livello mondiale nel ramo energetico, insieme a colossi come Shell e Total, peraltro al centro di diverse controversie, come il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, nell’aprile 2010.
Crude Truth, cruda verità, è il titolo della performance di protesta messa in scena da Extinction Rebellion negli spazi della National Portrait Gallery, a segnare proprio la chiusura della mostra del BP Portrait Award. Già nel 2014 e per un’occasione simile, la 25ma edizione del premio, alcuni attivisti protestarono contro la BP Oil, versandosi del petrolio sul viso. «Non possiamo essere artisti su un pianeta morto. L’olio significa fine ma l’arte è l’inizio», ha dichiarato un manifestante, prima di dare il via all’azione, tra gli applausi di molti dei presenti, secondo quanto riportato dal Guardian. I tre attivisti seminudi sono rimasti sdraiati per diversi minuti sul pavimento della sala, cosparsi di una sostanza oleosa, prima di rialzarsi, asciugarsi e pulire tutto. «La National Portrait Gallery è molto influente e deve essere all’avanguardia su questi temi. Invece stanno facendo il contrario, essendo sponsorizzati da un’azienda che vive nel passato, visto che oggi abbiamo il know-how tecnologico adatto per produrre energie rinnovabili», hanno spiegato da Extinction Rebellion.
Da parte sua, la National Portrait Gallery non demorde e ha affermato che il supporto di BP al premio ha incoraggiato il lavoro di artisti di tutto il mondo e ha permesso l’ingresso gratuito alla mostra, che quest’anno ha attirato oltre 300mila visitatori. «Il dibattito sulla sponsorizzazione di BP ha sollevato importanti domande sia sull’ambiente che sul finanziamento della cultura e stiamo ascoltando attentamente le voci da tutte le parti», hanno dichiarato dal museo.
Un po’ debole come risposta, considerando che il disastro della Deepwater Horizon, in seguito a un incidente durante il perforamento di un pozzo sottomarino nel Golfo del Messico, ha causato la morte sul colpo di 11 operai, un aumento statistico dell’incidenza di tumori sul medio e lungo periodo per la popolazione locale, lo sversamento nelle acque di una cifra impressionante e difficilmente precisabile di idrocarburi – stiamo parlando di una cifra compresa tra i 5 e 10 milioni di litri –, la chiusura del 20% delle spiagge dell’area.