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«C’era una volta… Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No ragazzi, avete sbagliato: c’era una volta un pezzo di legno».
Eccolo, il famosissimo incipit del primo capitolo di La storia di un burattino di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, che apparve a puntate sulle pagine del Giornale dei bambini nel 1881. Quindici capitoli che si chiudono con la morte del burattino impiccato crudelmente dal Gatto e dalla Volpe sui rami sferzati dal vento di una grande quercia.
Ma le proteste dei lettori e il successo delle serie convinsero Collodi a continuare la storia: il burattino di legno non può morire, la storia di Pinocchio non può interrompersi con la catastrofe definitiva. Nasce così – due anni dopo, nel 1883, esattamente 140 anni fa – la prima edizione di Le avventure di Pinocchio. A questa gestazione lunga e complessa il filosofo Emilio Garroni aveva dedicato il bellissimo saggio Pinocchio, uno e bino in cui si interrogava sulla doppia anima del romanzo collodiano.
La “bambinata”, come l’aveva definita il suo autore, è un libro inesauribile che non solo merita un posto tra i classici della letteratura italiana, ma che diventa il testo più tradotto al mondo insieme alla Bibbia e al Corano.
Un archetipo capace di generare infinite riletture, riscritture, interpretazioni e rielaborazioni creative in tutti i linguaggi possibili. Dal cartone animato della Disney del 1940 all’ultima versione in stop-motion di Guillermo del Toro che nel 2022 per Netflix ha confezionato un personalissimo burattino alle prese con il fascismo. Passando per il teatro di avanguardia di Carmelo Bene, per il realismo magico di Matteo Garrone fino al Pinocchio-cyborg di Steven Spielberg.
La madre adottiva del film A.I. Artificial Intelligence – progetto di Stanley Kubrick, realizzato da Spielberg nel 2001 – legge al suo robot-bambino la storia di Pinocchio. E in quel distopico 2125 il vero Paese dei Balocchi non è altro che una Las Vegas virtuale e labirintica.
Non si esaurisce qui la vena fertile delle interpretazioni di Pinocchio. Sarà perché si tratta di un romanzo di formazione in cui il realismo dell’ambientazione del Granducato di Toscana prima dell’Unità d’Italia si mescola alla vena visionaria della fantasia e dell’immaginazione senza tempo e senza spazio. La realistica descrizione dell’indigenza della Toscana assediata dalla fame e dalla povertà si accompagna alla magica evasione nelle atmosfere cupe e magiche delle fiabe popolari. Un doppio registro che si ritrova anche nel linguaggio, a volte popolaresco a volte colto, ma sempre pieno di ironia e sarcasmo toscanacci, capace di portare luce nel buio delle difficoltà.
I personaggi sono dei tipi umani diventati espressioni proverbiali, dal “grillo parlante” personificazione della coscienza all’insofferenza alle regole di un “Lucignolo”, dalla furbizia sgangherata del “Gatto e la Volpe” fino alla protettiva “Fata Turchina”. Nelle sue avventure il burattino senza fili si confronta e si scontra con ogni personaggio che rappresenta una prova da affrontare, uno specchio deformato di una parte della realtà da elaborare e superare.
UN VIAGGIO INIZIATICO
Un viaggio di iniziazione come le Metamorfosi di Apuleio. Una citazione non casuale per Carlo Collodi che faceva parte della Loggia massonica di Firenze. Il suo romanzo per bambini è impregnato di terminologia alchemica. L’iniziazione del pinoculus, il piccolo pino, l’albero sempreverde che sfida l’inverno avviene in tre gradi: dalla pietra grezza di mastro Ciliegia, alla pietra lavorata del burattino fino alla levigatura completa del “ragazzino per bene”.
Il viaggio di Pinocchio è il viaggio dell’essere umano, che deve attraversare prove difficili, prove di morte e rinascita, deve attraversare gli elementi e ritornare purificato alla vita. Attraversare il fuoco – dal barbecue di Mangiafuoco al falò acceso dagli assassini; l’aria, come il vento impetuoso della Grande Quercia; l’acqua, portando in salvo il babbo dallo stomaco del pescecane. Pinocchio deve liberarsi dalle tentazioni della vita materiale e dagli inganni dei falsi maestri: deve diventare responsabile delle sue azioni; deve smettere di fuggire da sé stesso e farsi carico dei propri inciampi.
Fino alla morte simbolica conclusiva, muore il profano e rinasce l’iniziato: “Com’ero buffo quando ero un burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino per bene!”
Per diventare sé stessi, bisogna avere il coraggio di perdersi, deve smarrirsi nel paese dei balocchi, il non-luogo dove tutto è uno spettacolo, liberarsi dalla trappola del divertimento perpetuo che – come dice l’etimologia de-vertere, deviare – è allontanamento dalla propria strada, distrazione dal proprio percorso. Ma è in queste prove – in questi inevitabili inciampi – che Pinocchio conosce l’esperienza del limite, che ritrova la luce dopo aver attraversato la tenebra.
Sarà proprio il massone Walt Disney a riprendere il fil rouge di questo viaggio di formazione esoterico con il cartone animato del 1940 – il suo secondo lungometraggio – che aumenta a dismisura la popolarità di Pinocchio nel mondo.
Una fiaba laica – anche se non sono mancate le interpretazioni cristiane come quella del cardinale Giacomo Biffi – in cui si insegna a diffidare delle autorità terrene e a trovare la propria strada, con l’aiuto di una fata che non ha nulla di angelico, è anzi simile alla dea Iside citata da Apuleio: una figura metamorfica e misterica che cambia continuamente forma. Prima è una sorellina con i capelli turchini, poi ha le sembianze di una capra, poi impersona la divinità degli animali e delle piante, poi la figura materna e protettiva, poi Maestra esigente che addirittura si finge morta per far attraversare al bambino la prova più dura: l’esperienza della perdita.
“Pinocchio non solo è una rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche, ma contiene suggerimenti sottili su come si opera per liberarsi da sé stessi” ha scritto il grande critico Elémire Zolla in Uscite dal mondo, ricordando una preziosa frase di Marco Aurelio che sembra la perfetta chiosa stoica del nostro burattino: “Ricordati che colui che tira i fili è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita nostra, è Lui l’Uomo… Cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a marionette e nient’altro”.
Pinocchio impara a pensare con la propria testa fuggendo dalla dipendenza cognitiva; impara a decelerare la sua corsa forsennata in cui sbaglia velocemente, a prendersi il tempo per riflettere e decidere.
Ma dentro alla linearità di un percorso orientato verso il bambino “per bene”, le avventure di Pinocchio continuano ad appassionare piccoli e grandi lettori a 140 anni di distanza perché sono sempre di più di ciò che sembrano. Un’icona potente, che ha coinvolto ed emozionato il mondo dell’arte: da Paul McCarthy a David LaChapelle, da Alexander Calder a Mimmo Paladino, da Mario Ceroli a Luigi Ontani, fino al famoso naso pinocchiesco di Alberto Giacometti. Proprio alle tante versioni dell’enigmatica opera “Le Nez” sarà dedicata la nuova mostra della Fondazione Giacometti di Parigi che si inaugura il 7 ottobre 2023.
Pinocchio, insomma, non è «come uno di loro» – denunciava Edoardo Bennato negli anni 70 – perché è libero di sbeffeggiare tutte le autorità e di rifiutare tutte le istituzioni, l’unico senza «qualcuno che comanda e muove i fili» al suo posto.