Non è stato un lunedì semplice per la Tate Modern di Londra, che ieri, alla riapertura dopo quattro mesi di lockdown – attesissima la mostra su Andy Warhol –, ha visto sfilare davanti all’ingresso decine di manifestanti, coinvolti in una serie di dure proteste contro la massiccia campagna di licenziamenti del museo. 200 circa i posti di lavori che, secondo i piani, dovranno saltare ma c’è di più: pare che la maggior parte delle persone licenziate siano nere o appartenenti a minoranze etniche. I 200 posti in bilico infatti appartengono alle sezioni commerciale, editoriale e ristorazione, proprio i settori in cui è più alta la percentuale di personale è BAME, cioè Black, Asian and Minority Ethnic. E così, a protestare davanti alla Tate, sono state sia le sigle dei sindacati in difesa dei lavoratori che gli attivisti del movimento Black Lives Matter.
La PCS – Public and Commercial Services Union, uno dei più grandi sindacati del Regno Unito, ha chiesto alla Tate di investire il 10% delle sovvenzioni previste dal Governo – circa 7 milioni di sterline – per salvare i posti di lavori, «Sarebbe un buon inizio per dimostrare che le vite dei lavoratori contano davvero per la Tate», ha detto un portavoce del sindacato ad Artnet.
Poche settimane fa, alcuni post di supporto al movimento Black Lives Matter pubblicati sui canali social della Tate hanno scatenato un acceso dibattito, con alcuni commentatori che hanno chiamato in causa i rapporti controversi con Anthony d’Offay, ex filantropo del museo londinese, coinvolto nello scandalo delle molestie sessuali tra il 2017 e il 2018 e recentemente comparso in un selfie con un Golliwogg, una bambola nera risalente ai primi anni del ‘900 e considerata emblema di un atteggiamento razzista.
La Tate ha però specificato di aver troncato i rapporti con d’Offay: «La Tate ha immediatamente sospeso i suoi contatti con Anthony d’Offay nel dicembre 2017. Non perdoniamo immagini razziste, abusi o discriminazioni all’interno di Tate, nelle nostre gallerie o sulle nostre piattaforme digitali».
Tuttavia, pare che una targa celebrativa di d’Offay, che donò diverse sue opere alla Tate e alle National Galleries of Scotland, sia ancora affisa nella Turbine Hall, l’iconico spazio della Tate dedicato ai progetti site specific.
Per quanto riguarda i tagli ai posti di lavoro, la Tate Enterprises, il braccio commerciale dell’istituzione, ha affermato che i licenziamenti sono dovuti alle normative in vigore in materia di distanziamento, oltre che a un inevitabile calo dei visitatori nei prossimi mesi.
La PCS sta attualmente concordando con i suoi membri la possibilità di intraprendere una serie di scioperi e manifestazioni all’interno del museo, nella speranza di attirare l’attenzione sui licenziamenti non solo della Tate ma anche delle altre istituzioni culturali londinesi, come quelle previste dalla Hayward Gallery di Londra, dove sono in cantiere circa 400 tagli. Il segretario generale del sindacato, Mark Serwotka, ha confermato il supporto ai suoi membri, qualunque cosa decidano di fare, compresa un’azione di sciopero prolungata. «È sbalorditivo che dopo aver ricevuto una sovvenzione di 7 milioni di sterline dal governo, la Tate abbia deciso di trattare in questo modo il suo personale», ha dichiarato Serwotka.
Un portavoce della Tate ha chiarito che i licenziamenti previsti «coinvolgeranno tutti i livelli di personale», aggiungendo che il museo ha già stanziato 5 milioni di sterline dalle sue riserve per supportare l’area commerciale e che le sovvenzioni ricevute dal governo saranno utilizzate per compensare le perdite di entrate dovute al calo delle vendita dei biglietti». I direttori di Tate Enterprises, Hamish Anderson e Carmel Allen, hanno dichiarato che non è stata ancora presa alcuna decisione ufficiale sui licenziamenti e che stanno lavorando per mantenere il maggior numero possibile di lavoratori.
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