Nessuno scandalo al femminile questa volta, ne alcun irriverente flash mob. Nessun atto di impudenza o canto blasfemo, eppure, il famoso collettivo artistico Pussy Riot torna a essere il bersaglio n.1 dell’autoritarismo di Putin e, a farne le spese, è ancora una volta Veronika Nikulshina, tra le esponenti più influenti del noto gruppo di attiviste.
Le Pussy Riot, meglio conosciute come «Il peggior incubo di Vladimir Putin», è un collettivo femminista, costituito nel 2011 da artiste e attiviste russe, interpreti di un situazionismo storico ispirato al punk rock e alle avanguardie storiche. Il gruppo, attivo principalmente a Mosca, agisce da anni sotto anonimato, organizzando azioni pubbliche di dissenso su argomenti quali la parità di genere e il diritto alla democrazia in Russia e nel mondo.
Identificate dal web come «Le ragazze dai collant sgargianti e dai bizzarri e colorati balaclava», queste impavide donne rappresentano tutto ciò che il presidente russo non tollera: libertà di espressione, libertà sessuale, diritti e comunità LGBTQ+, distruzione del patriarcato e della supremazia “machista”. Spesso picchiate, pedinate, trascinate con forza e arrestate per «Teppismo premeditato» o perché considerate «Persone motivate da odio e ostilità verso la religione», queste supereroine moderne, nonostante gli atti di repressione subita, non mollano e stringono i pugni per farsi portavoce di diverse iniziative sociali.
Dopo gli happening e le provocazioni di piazza nei confronti dell’establishment politico e istituzionale russo, le pagine di cronaca internazionali tornano a ricordarci delle sventure a cui è sottoposto il gruppo che lotta ogni giorno contro l’involuzione neo totalitarista del proprio Paese.
A pagarne il conto, questa volta, è l’attivista Veronika Nikulshina, che già nel 2018 era stata trattenuta senza aver commesso nulla. Arrestata ancora una volta fuori casa sua e detenuta per cinque giorni senza aver compiuto alcun gesto illecito, la donna è stata accusata di disobbedienza civile. Il movente? Impedire a una Pussy Riot «Le solite acrobazie e trovate pubblicitarie» atte a rovinare la parata militare di commemorazione del Giorno della Vittoria. Precauzione o deriva autoritaria dunque? Sicuramente volontà di stroncare sul nascere qualunque attività di dissenso al regime.
Per Veronika Nikulshina non è la prima volta dietro le sbarre. Da anni, infatti, la polizia russa riserva a lei e alle altre componenti del collettivo trattamenti “speciali” quali detenzione, privazione delle libertà personali, abusi e censura estrema.
Nel 2018, dopo essere stata parte attiva alla famosa «Invasione di campo» nello stadio moscovita in cui si disputava la finale di Coppa del Mondo tra Croazia e Francia, Veronika e le altre hanno colto l’occasione per denunciare al mondo l’immoralità del sistema penale russo e per chiedere il rilascio dei prigionieri politici del paese. Una denuncia pubblica ripagata con 15 giorni di reclusione e di allontanamento totale da ogni evento sportivo. Non contenta, lo scorso anno, Veronika è stata nuovamente segregata per aver esposto delle bandiere arcobaleno sugli edifici governativi del Presidente della Federazione Russa.
Ma oggi a lottare per la sua innocenza si sono schierate le altre appartenenti al gruppo che, tramite i loro canali social e Twitter, non solo hanno denunciato l’assurdità dell’accaduto scrivendo «Putin’s traditional values: to detain pussy riot members», ma hanno risposto con grande forza ai curiosi commentatori con «Nothing much! simply walked out of her apt».
Non c’è da stupirsi se le performance, i video e le dichiarazioni pubbliche del gruppo, così come i presunti abusi a cui sarebbero state sottoposte dalla polizia, attraggano l’interesse della comunità internazionale. La modalità artistica delle attiviste e l’esplicita volontà di trasferire un’immagine femminile non-standardizzata è idolatrata quanto condannata.
Forte è infatti l’ostilità dei più conservatori, che spesso nelle loro imprese vi hanno percepito un’offesa alla propria sensibilità religiosa e alle proprie tradizioni. A generare malcontento un esempio su tutti: il 21 febbraio 2012, nell’ambito di una protesta contro la rielezione di Vladimir Putin, tre artiste del gruppo dopo essersi fatte il segno della croce all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore – tempio della chiesa ortodossa russa – si sono esibite in una sorta di preghiera punk che invocava la Beata Vergine Maria a proteggere e difendere le femministe dalla tirannia russa.
Nonostante il riconoscimento di diritti civili, sociali e politici alle donne, la società russa odierna è ancora figlia di un rigido sistema tradizionalista e patriarcale, dove le discriminazioni non mancano e gli stereotipi di genere nemmeno. La Corte europea per i diritti dell’uomo ha infatti condannato la Russia per il modo in cui più volte ha trattato le artiste, affermandone la violazione del diritto alla libertà d’espressione. Poiché urlare, ballare, esprimersi indossando vestiti sgargianti o utilizzare un linguaggio colorito, così come esplicitare una preferenza sessuale, non può essere punito.
Essere liberi di decidere non significa dare vita a disordini di massa. Essere anticonformisti non implica l’offesa dell’altrui credo. Contestare non è inneggiare all’odio. Il caso Pussy Riot può fungere da via per un mondo migliore, in cui diverse scuole di pensiero sono viste come un arricchimento sociale e non come un ostacolo.
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