Nel corso dell’appassionante dibattito svoltosi sabato, 8 giugno, al Teatro Franco Parenti di Milano, attorno al tema “Poesia e comunità”, sono emersi spunti di riflessioni molto interessanti che, volendo, si possono estendere anche al campo delle arti visive. Ed ecco che i poeti – ma anche esponenti di altre discipline – si incontrano e dialogano sul ruolo della Poesia, sula sua necessità nel mondo di oggi, ormai privo di punti di riferimento stabili: né la natura, costantemente vilipesa, né la storia – ormai post-storia – in quanto non fornisce più i grandi modelli, le grandi istanze ideologiche che facevano “sognare” intere generazioni ma schiacciata sul presente di problematiche cogenti che chiedono di essere affrontate con urgenza. Un mondo in cui, indiscutibilmente, il potere della Tecnica esercita il suo dominio su tutti i campi, in cui l’avvento dell’Intelligenza Artificiale sembra profilarsi come un abbraccio suadente e soffocante con quel che resta del respiro umano.
Come lucidamente scriveva Giulio Carlo Argan in Progetto e destino (1965, Edizioni Il Saggiatore), «La fine del ciclo storico potrebbe essere determinata proprio dal fatto che, per la prima volta, la tecnica si muove con impulsi, direzioni e finalità che non provengono né dalla filosofia, né dalla scienza, né dall’arte, ma dal proprio meccanismo, dalla tendenza, da cui pare animata, ad affermarsi come attività autonoma, e quanto prima, egemone». E dunque il poeta, l’artista che si muove in siffatto mondo, si interroga, indotto a cercare di continuo una sua “posizione” in questo globo terracqueo, a dare un senso alla sua prassi espressiva, a cogliere la necessità originaria del suo fare arte, al suo bisogno di dare voce alla sua voce.
Pertanto, coordinati dalla brillante Elena Mearini, poetessa e scrittrice, nonché fondatrice e direttrice del PAP – Piccola Accademia di Poesia di Milano, da Marco Saya, editore, e da Angelo De Stefano, filosofo, si sono alternati sul palco Lello Voce, poeta, scrittore e performer, fondatore del Gruppo 63 e pioniere dello spoken musik col merito di aver introdotto in Italia il poetry slam, David Riondino, cantautore, attore e regista, Furio Ravera, psichiatra, Marco Zapparoli, editore di Marcos y Marcos, Marco Philopat, attivista e scrittore.
Il vivo della questione, afferma Elena Mearini, è chiedersi se la poesia è salvifica o no. Tema che, anche per le arti visive, ha attraversato il dibattito culturale del secolo breve, riaprendo indirettamente l’annosa questione dei dualismi tra autonomia dell’arte e vita, tra arte e politica, arte ed azione. E quindi a questo punto è obbligatorio interrogarsi sull’origine della poesia, rintracciarne le radici che, come scrive Lello Voce nel suo noto Piccola cucina cannibale «…è un’arte che abita il tempo. E che ne è abitata…. Che abita il suono…che abita la voce… ed è esattamente la voce del poeta, mai il contrario». E più avanti precisa che «La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili».
Così anche noi possiamo immaginare che il potere salvifico della poesia e dell’arte non sta tanto dal salvarci da un destino che pare socialmente votato alla catastrofe; piuttosto salvarci dalla vita, se spinge l’essere alla deriva e verso il baratro; diciamo pure, alla sua non cura – come avrebbe affermato Martin Heidegger, cioè una deriva perniciosa che porta alla dissipazione delle energie spirituali della coscienza operante. E quindi la poesia è indicatore della migliore cura dell’essere, potenziamento della coscienza che con i suoi elaborati frutti, offerti alla polis, svolge una funzione sociale indispensabile.
Angelo De Stefano propone sottilmente una modifica grammaticale al titolo della serata, affermando che «Poesia è comunità», è incontro e partecipazione con l’altro per cercare insieme di tradurre “quell’indicibile” strettamente connesso alla nostra tensione esistenziale. Pertanto nessuna “macchina” artificiale o meno, potrà sostituirsi all’uomo, al duro lavoro di estrarre da se stessi quella voce profonda che crea senso nel rinominare le cose, per afferrarne l’intima essenza e depositarle alla luce della condivisione. E questo perché – aggiunge Furio Ravera – la poesia è strettamente legata al corpo umano con i suoi miracoli neuronali, cantico di una complessità sviluppatasi nel tempo evolutivo, sviluppo delle corde vocali nello sforzo di nominare il mondo.
Ma per far ciò occorre che l’artefice, il poeta, l’artista, frequenti le fucine del dio Efesto, entrare nel vulcano di se stesso per fondere e piegare i metalli della sua anima, rendere docile la sua mente ingannatrice, appartarsi dalle illusioni e dalle false melodie, e poter rubare agli Dei (Mark Rothko) quel poco che gli è concesso e cercare di tornare indenne dal viaggio. E dunque il problema è sempre il come, che ha a che fare con il linguaggio, con la discesa e la risalita.
Il poeta e il pubblico, ma meglio sarebbe dire l’altro, meglio ancora “comunità”, sono simili a due amanti; come efficacemente scritto da Rainer Maria Rilke in alcuni suoi versi delle Elegie Duinesi: «Gli amanti potrebbero, se sapessero come, nell’aria/della notte/dire meraviglie. Perché pare che tutto/ ci voglia nascondere. Vedi, gli alberi sono, le case/ che abitiamo reggono. Noi soli/passiamo via da tutto, aria che si cambia./E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace/un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza/ineffabile».
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