Salvatore Cristofaro e Manuela Piccolo, curatorз indipendenti e teoricз dell’arte, attivano una ricerca, volta a forme di dialogo trasversale, in cui si incontrano geografie artistiche e aspetti che riguardano la società contemporanea. Questo dialogo nasce dalla necessità di esprimersi sul tema dei linguaggi inclusivi e le recenti dibattute questioni sull’uso degli inglesismi. Di seguito il loro punto di vista sull’argomento, con il supporto visuale dell’artista Valerio Eliogabalo Torrisi.
Salvatore Cristofaro: Mi trovo a scrivere questo breve testo qualche giorno dopo aver letto le molteplici notizie dai titoli come: “la Crusca ha detto stop allo schwa e all’asterisco” e successivamente al dibattito politico sull’utilizzo o meno dei termini anglofoni nella nostra comunicazione. L’importanza e il costante interesse verso l’uso di forme linguistiche, corrette e aderenti ad un pensiero, mostra come la società odierna e la politica riconoscano il ruolo e il potere trasformativo delle parole. In questi anni abbiamo assistito ad un maggiore utilizzo di asterischi, chiocciole, x e il più discusso simbolo fonetico, lo schwa singolare ǝ e plurale з, che si sono inseriti, a fatica e dopo continue sperimentazioni, nella nostra comunicazione.
“Ciao a tuttǝ”
Il linguaggio è un’infrastruttura del pensiero, e come tale plasma il mondo che ci circonda. La nostra realtà si è fatta sempre più fluida e attenta a tutte quelle sensibilità altre che il sistema governativo ignora. Il linguaggio è quell’abilità che ci rende umani, ci dà la possibilità di argomentare pensieri complessi e ci permette di orientarci nello spazio, dandoci la capacità di definire un luogo. Ma esso ci permette di orientarci anche nel tempo, riuscendo a definire un evento avvenuto nel passato e a proiettarci nel futuro. Con esso ci relazioniamo, comunichiamo, disputiamo e ci evolviamo. Mi piace vedere il linguaggio come un’entità fluida che percorre identità e realtà, mutando insieme a chi le vive. Con esso parliamo e grazie ad esso riusciamo a definire noi stessi e a descrivere il mondo in cui viviamo. Nei diversi periodi si sono adoperati differenti linguaggi che si sono plasmati a seconda della sensibilità e realtà del momento. Questa fluidificazione ed evoluzione del linguaggio sembra lapalissiana quando si percorrono gli eventi storici.
Un esempio è dato dal modo in cui consideriamo l’arte come estensione del nostro linguaggio: a periodi diversi corrispondono stili artistici differenti, alcuni colori acquisiscono significati specifici, e si mostrano forme e tematiche proprie di quel vissuto. Ogni realtà rende proprio il linguaggio di quel tempo, e quest’ultimo racconta il vissuto e le rivoluzioni di quel preciso istante. Le parole che usiamo hanno il potere di narrare, come opere visive, le realtà che viviamo. Esse hanno il potere di scalfire e modellare i confini prestabiliti che occludono l’inafferrabile fluire della realtà.
Il linguaggio ci permette di comunicare, di veicolare messaggi, ma esso ha a che fare anche con le nostre emozioni. Come un codice ricco di parole e spazi, il linguaggio che usiamo è il frutto di scelte. Decidere se usare o meno una determinata parola è un atto politico; strutturare una frase è una nostra libera azione; scegliere di accostare differenti parole e suoni ha a che fare con la nostra visione, con le nostre emozioni. Un linguaggio privo di emozioni è un linguaggio didascalico, meccanico, ma noi non siamo creature didascaliche, poiché in tutto ciò che diciamo proiettiamo le nostre convinzioni, inoltre non siamo esseri meccanici, perché in ogni parola che usiamo infondiamo una nostra volontà. Anche se indirettamente, il nostro parlare si versa in un contesto empatico e ricco di relazioni. Tuttavia occorre educarci all’empatia, occorre comprendere che ogni singola parola ha un peso, e in un mondo connesso e ricco di molteplici relazioni è fondamentale riconoscere il potere delle parole e la consapevolezza per saperle usare al meglio.
Ma allora mi chiedo: se la nostra società e le altre identità non polarizzate sentono la necessità di spingere il linguaggio ad avviarsi verso diverse forme di sperimentazione e di rappresentazione linguistica, perché ciò ci turba? Perché non riconosciamo la fluidità del linguaggio stesso e la contaminazione che esso subisce dalle altre realtà? Forse tutto questo avviene per tutelare una tradizione linguistica che vuole cristallizzare un’idea di lingua “pura”? Oppure è la paura di offrire strumenti trasformativi ad altre identità che frena la metamorfosi linguistica?
Manuela Piccolo: Tutte le parole, infondo, sono state create, ci pensi? In più, di grave, in quello che tu racconti c’è che vietare gli inglesismi è un ripetersi, un pericoloso ripercorre un segno del tempo, una linea storica definita. E se ci pensi è un finto turbamento e sono delle finte convinzioni radicate. Il linguaggio si è sempre modificato con il tempo, dai tempi del volgare all’aggiunta di petaloso sul dizionario. Però noi sappiamo raccontare le storie in così tanti modi per cercare di portare la ragione dalla nostra parte, è una caratteristica dell’animo umano, quindi non conviene ricordarcelo. Questo mi sembra proprio uno di quei casi.
La scelta delle parole da utilizzare è politico e parlare è una responsabilità precisa. Il linguaggio può essere motore di un cambiamento, anzi il linguaggio è il principio, la miccia, del cambiamento, perché influenza il nostro sentire, come veniamo percepitз da chi abbiamo di fronte e diventa un preciso posizionamento per chi sceglie come e quando utilizzarlo. Per questi motivi il dibattito intorno al linguaggio inclusivo sembra non arrestarsi, ed è sempre di più acceso. Ciao a tutti. Benvenuto nel nostro sito. Grazie per esserti iscritto alla nostra newsletter. Italiano medio. Rimani aggiornato. Sei un cliente soddisfatto? Nessuno può dirlo. Il primo presidente donna. La legge è uguale per tutti. Candidati, avversari. Arriverà qualcun altro. Nelle forme giuridiche, addirittura, si parla del buon padre di famiglia. Questi sono alcuni esempi di maschile sovraesteso, esempi a cui moltз di noi non fanno più neanche caso.
Le parole cambiano il modo in cui percepiamo la realtà, basti pensare che non esiste in cultura un vuoto lessicale, nel senso che se non riusciamo a chiamare qualcosa per nome, se non sappiamo definirla, allora quella cosa culturalmente parlando non esiste. Come diceva William Shakespeare la – celebre – rosa avrebbe lo stesso odore se non si chiamasse rosa, tuttavia la società ha sentito il bisogno di determinarla, di darle un nome. La rosa esiste e ci appare in mente quando la nominiamo, possiamo sentirne l’odore. Cosa succede a quelle cose che non nominiamo? Come il femminile, che viene sempre sovradeterminato dal maschile, così come tutte le altre sfaccettature basate su un impianto che non sia binario. Possiamo dire che non esistono?
Questi termini che sono così comuni sono maschili, che non corrisponde ad un “neutro” che è per sua natura “inclusivo”, ma è “sovraesteso”. Come afferma la sociolinguista Vera Gheno, il maschile sovraesteso è “usato solo per tradizione, perché la nostra è una lingua androcentrica”. Possiamo cambiarla e decidere di utilizzare la lingua – strumento e convenzione che abbiamo nelle nostre mani – a favore di una moltitudine più grande. Una tradizione che è diventata sempre più scomoda, perché hanno insegnato alle donne che dovevano sempre, indipendentemente sentirsi incluse quando qualcunɜ lascia un tavolo e dice “ciao a tutti”. Per l’uomo non è lo stesso, indipendentemente da chi abbiamo sedutɜ con noi al tavolo, chi andrà via si rivolgerà a chi è sedutɜ al maschile. E’ importante precisare il limite binario di questo discorso, limite dato dalla struttura della lingua italiana
Perché ricercare modalità di linguaggio più inclusive? Perché non ci vogliamo accontentare delle cose solo perché sono così come sono, essere inclusivi significa guardare da altre prospettive. Usare un linguaggio empatico significa sentire la consapevolezza e l’ampiezza proprio di quel ventaglio umano appena citato.
Salvatore Cristofaro vive e lavora tra Catania e Milano, tra il mondo e HOTTO – fondazione per l’arte – che tratta di elementi reali e immateriali. Laureato in Design e Comunicazione Visiva al Politecnico di Torino, ha sperimentato per la prima volta progetti di critical design. Nel 2019 si è trasferito a Milano per frequentare il Biennio specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA. Nel 2023 ha seguito il master “Curare l’organizzazione di una mostra” presso School for Curatorial Studies di Venezia. I suoi lavori principali indagano la critica istituzionale e l’importanza di definire spazi polimorfici. La sua pratica e ricerca è in continua evoluzione e si focalizza sulla performatività identitaria e sullo sperimentare scenari atipici, dove tangibile e intangibile si fondono. Ha collaborato con l’associazione MinD Made in Design e dal 2022 collabora con l’Associazione Studi e Spazi Festival con la quale nel 2023 ha organizzato Walkie-Talkie dentro il circuito di Walk-In Studio.
Manuela Piccolo vive e lavora tra Milano e Palermo. Organizza, gestisce e sviluppa progetti artistici e culturali. È laureata in Architettura junior al Politecnico di Torino, in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA, Milano e ha conseguito un master in Digital Specialist al Sole24Ore BS. Ricerca strumenti provenienti da varie discipline, è interessata alla realizzazione di strategie di comunicazione, alla valorizzazione del patrimonio culturale e alle connessioni opera/spazio/pubblico, quindi al rapporto con la materia e con il tempo dell’azione proprio dell’arte. Nel 2019 co-fonda l’Associazione Studi e Spazi Festival con la quale organizza Walk-In Studio, che coinvolge artistз attivз a Milano che aprono i loro studi per mostre ed eventi con altrз autorз, creando un grande circuito di scambio e di stimoli. Per tutto il 2019 ha collaborato come assistente esecutivo con ADC – Agenziadelcontemporaneo e con FlashArt Italia. Ha lavorato con l’ArchivioBoboPiccoli, con Atp Diary e Forme Uniche. Nel Marzo 2020 ha pubblicato Indisciplinata+, edito da Postemediabooks.
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