Se diamo per buono il significato di “rimosso” quale ci viene fornito dalla psicanalisi, parliamo allora di un meccanismo inconscio che allontana desideri e pensieri considerati inaccettabili e intollerabili dall’Io, la cui presenza provocherebbe vergogna. Dal mio primo contatto con Napoli ho sempre creduto che questa città incarnasse in un certo senso il “rimosso” del Nord o meglio quella realtà decadente, viscerale, che era il rovescio di un altro tipo di società che viaggiava spedita sui binari dell’emancipazione e della funzionalità.
Infatti, tolte le illusioni oleografiche di un’età remota e qualche record eccellente che sapeva più di paterno conforto che di sana ammirazione, Napoli era, quando mi ci trasferii per i miei studi universitari nel 2006, carente sotto tutti i punti che invece risultavano essere il fiore all’occhiello del Nord: tasso di occupazione, affidabilità dei trasporti, vivibilità, risorse turistiche. Aveva inoltre un’aura tetra e miserevole: lo potevi sentire chiaramente girando tra le Chiese decorate di teschi nel centro storico; camminando a tua insaputa sopra il cimitero delle vittime della peste; assistendo a una rissa improvvisa, o peggio; inciampando nella scena di un omicidio con tanto di morto ammazzato; o in uno dei tanti sacchi neri sparsi un po’ ovunque a causa dell’emergenza rifiuti. Una costante dualità che sposava il paradisiaco con il macabro, e la città che tutti definivano del sole, per noi restava una zona d’ombra.
Tutti questi tasselli formavano nell’insieme un’immagine ambigua della città, ma sicuramente autentica. Perché “non è normanna, ma bizantina!” continuavano a ripeterci nelle aule dell’Università, come a fornirci al tempo stesso un contesto ma anche un incoraggiamento a non demordere, perché proprio come nell’iconografia bizantina, per vedere devi andare oltre l’immagine. Un assunto che James Hillman spiega egregiamente quando scrive che “…l’immagine invisibile ci guarda mentre noi guardiamo quella visibile”. L’immagine invisibile di Napoli è scomparsa definitivamente da quando è stata non solo addomesticata ma riqualificata. L’ultimo aneddoto in ordine cronologico risale all’8 dicembre 2023, quando la project manager Martina Servadei si riprende con lo smartphone mentre cammina da sola per le vie del centro, dichiarando fieramente di sentirsi “un precursore [ad essersi trasferita dal Nord al Sud, ndr], e che prima o poi tutti capiranno il valore di questa città”. Il problema è che invece è già successo, e non per i motivi che avremmo voluto.
Se un tempo esploravamo la città come se stessimo esplorando noi stessi, attraversando senza vergogna le aree rimosse dalla coscienza civica (Bagnoli), sociale (Sanità, Quartieri Spagnoli), politica (Mezzocannone), la situazione oggi sembra essersi rovesciata e il senso di tragedia imminente di cui era infusa la città, laddove non è spettacolarizzato, è occultato. Ne è la prova l’abbondare di vetrine, negozi, trattorie che forniscono all’odierno avventore un paravento illusorio e posticcio, come ne ebbe a dire a suo tempo Matilde Serao nel suo Ventre di Napoli, riferendosi a quel rettifilo che “Non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro di pietoso e di orribile!”. Prima o poi, la bella tela si squarcia: un’opportunità o la fine di un sogno?
David Lynch ne sarebbe entusiasta, ma per gli odierni blogger, tiktoker e influencer ci si sofferma invece su quanto Napoli sia cambiata nel bene diventando “come le altre città”, dove le storie sulla criminalità sono esagerate, dove ci si può sentire “libere e sicure”, come spiega Martina. Per quanto in buona fede, queste affermazioni non fanno che snaturare l’essenza stessa, il Sè di una città che nel bene o nel male non ha mai voluto omologarsi. E così, invece di percorrere la strada che conduce al rimosso, invece dello squarcio in cui entrare e lungo il quale imbattersi in una rêverie; il turista ignaro non può andare al di là del Paravento e, pure camminando tra le macerie, non vede squarci ma soltanto riflessi – e la metà invisibile che ci scruta, lentamente svanisce. In quel momento, potremmo essere in qualsiasi altra città del mondo e non rendercene conto.
Questo livellamento continuo sta assottigliando proprio ciò di cui Napoli era particolarmente ricca: emozioni contraddittorie, situazioni al limite, scene archetipiche, incontri paradossali. Qualcosa che si fatica a vedere nelle città mitteleuropee, dove il marcio viene prima isolato e poi riqualificato; dove la morte stessa attraversa un periodo di stigmatizzazione feroce che passa per diverse pratiche nutrizionali e fisiche, che al di là dell’etica ci seducono con l’idea di poter organizzare il caos, negare l’entropia e vivere in eterno. Ma alle spese di chi?
Il vuoto si sposta in periferia, che resta al di fuori della luce dei riflettori. Sarà forse per questo che in molte città sono così di moda le luminarie. Anche lì il ripopolamento delle aree interne, argomento che comincia ad apparire nell’agenda di ogni politico – non può essere semplicemente il riempimento del vuoto, dirottando masse di turisti per ammirare i paraventi di turno che non hanno neanche il dono dell’imperfezione, omologati come sono agli standard europei validi in un qualsiasi borgo della Svezia o del Belgio.
Come scrive magistralmente il poeta tedesco contemporaneo Durs Grünbein: “…la città ideale che cerco in ogni città, non è altro che il cervello rovesciato all’esterno”. Una volta ammessa la nostra alterità, il nostro vuoto e la nostra unicità, forse avremo l’opportunità di vivere luoghi che ci rispecchiano, e riflettano sia la luce che l’ombra. Senza sentirsi dei pionieri in terre selvagge. Senza dover limitare il valore di un luogo a quanto può offrirci.
Allora vorrei che ognuno avesse il tempo e la voglia di entrare e perdersi nei quartieri del proprio Io, frequentare una contraddizione in cui sentirsi comodi. L’orario in cui mi immagino avvenire tutto ciò, non può essere che la mezza – ovvero le 12:30 a Napoli, l’ora gradita al dio Pan; quando cioè il quadrante è perfettamente diviso in due. Da una parte la luce, dall’altra l’ombra. Allora il dio può mostrare più facilmente un’antica verità: che ogni cosa ha la sua metà, e nessuna può sovrastare l’altra, ma entrambe sono costrette a coesistere, per sempre. E a spiarci, a volte, dalla parte del buio.
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