A dispetto dei tempi incerti (ancora in corso, nonostante tutto) tra chiusure e parziali aperture, cartellini rossi, arancioni e tutto l’armamentario di provvedimenti che l’era dei decreti si porta dietro, Roma ha avuto comunque modo di mostrare recentemente una certa vivacità dei suoi gangli di produzione artistica e culturale – a dire il vero insolita per gli ultimi anni – che ha portato molti a parlare di «rinascita dell’arte contemporanea» o di «nuova spinta del contemporaneo».
Se da un lato il periodo ha rischiato di soffocare questi fermenti proprio nel momento in cui Roma sembrerebbe vivere un risveglio, percepito o effettivo che sia, dall’altro è sembrato invece incoraggiare e innescare la capacità di artisti, spazi e gallerie di muoversi negli interstizi lasciati tra chiuso e aperto, progettando nuove strategie di azione, uscendo dai consueti circuiti.
La risposta più immediata è stata incrementare le attività online, virtualizzare in un certo senso le attività espositive, critiche, sociali, per aggirare gli scogli della fisicità, della presenza, della materialità, che in questi tempi pandemici sono diventati, innaturalmente, il nostro incubo.
Per fortuna però l’arte sembra continuare ad avere bisogno di una realtà tangibile, ed ecco quindi nascere gran varietà di strategie oblique di apertura, più o meno strutturate, spontanee o pianificate, anche per la gran sete d’arte risvegliata dai tempi di magra.
I grandi centri istituzionali sono riusciti comunque a garantire una discreta produzione di mostre fisiche approfittando delle sporadiche finestre di apertura, ma dove i grandi pachidermi del panorama romano hanno dovuto arrestarsi sotto le smitragliate decretali delle chiusure, le gallerie private hanno potuto continuare per lo più a restare aperte – tranne che in zona rossa – nel rispetto ovviamente delle norme antiassembramento, muovendosi più agili e fuori dai riflettori.
Una modalità gettonatissima di apertura, e probabilmente destinata a radicarsi come standard futuro, è stata l’invenzione degli spazi esterni come spazi espositivi. A partire dall’incursione del MACRO nei territori dell’augmented reality, o realtà aumentata, con il progetto di Darren Bader Bootlicker suite fatto di sculture visibili solo attraverso smartphone tramite codici QR disseminati in giro per vari luoghi e città: un buffo punto d’incontro tra la scultura e Pokémon GO che prevediamo – chissà se gioirne o rammaricarsene – essere primo rudimentale esperimento di una tendenza destinata a svilupparsi ulteriormente. Altrove, nel microcosmo Garbatella, si è chiusa da poco una piccola mostra fotografica di soli dieci giorni, Visioni, organizzata come parte del più ampio progetto triennale Images da 10b Photography nei cortili – a volte veri e propri passages – dei lotti 24/29/30/55 del quartiere, da sempre, e per vocazione urbanistica, estroverso, nel senso di rivolto verso il fuori. E non è un caso se tra i progetti vincitori di Cantica 21 – iniziativa di disseminazione dell’arte italiana contemporanea nei circuiti di istituti di cultura, ambasciate e consolati italiani all’estero promossa da MAECI ed ex- MIBACT – si trovi Tevere Expo di Iginio De Luca, che si paleserà come un’installazione urbana con una selezione di 15 maxi-fotografie della misura di 2×3 metri, applicate su cartelloni pubblicitari in prossimità dei luoghi della cultura e delle istituzioni di Roma, per altro in perfetta, e ovvia, sintonia con i precedenti blitz dell’artista.
Negli ultimi tempi, poi, un’attenzione particolare sembra essersi riversata sugli studi degli artisti romani o operanti a Roma, e in particolare sulla riscoperta di una possibilità di un’apertura di essi all’esterno, nell’ottica di una ricucitura tra la fruizione dell’opera, possibile di questi tempi spesso solo attraverso uno schermo, e la comprensione della sua origine nel fare operativo dell’artista. Se già da febbraio era possibile entrare negli studi romani “virtualmente” attraverso la mediazione delle interviste/racconti per immagini di Daniela Trincia (vedi la nostra rubrica In studio #levisitedellatrincia), pochi giorni fa è stato presentato da Nomas Foundation il progetto di Raffaella Frascarelli e Sabrina Vedovotto dal titolo non troppo fresco, ma attualissimo mai come ora, roma città aperta, con il quale gli studi vengono appunto aperti alle visite su appuntamento di un pubblico composto non solo da professionisti del settore ma anche da semplici appassionati (sempre nel rispetto delle delle norme antiassembramento in voga al momento, ça va sans dire): una dinamica che si presenta anche come ghiotta possibilità di mappare lo stato di vitalità della scena romana.
Infine, fuori tema ma non troppo, vanno menzionati almeno due processi virtuosi, innescati invero in era pre-pandemia, anche se hanno portato sfumature di apertura diverse e più lontane dal campo del contemporaneo: la futura apertura al pubblico e musealizzazione dell’area archeologica di Largo Argentina – da sempre chiusa e fossilizzata nonostante le sue potenzialità culturali – per opera della Fondazione Bulgari, e la ri-apertura dell’Azzurro Scipioni di Silvano Agosti, piccolo santuario del cinema fondamentale nella topografia affettiva di molti romani, mestamente avviato verso la dissoluzione ma salvato in extremis da un importante gruppo bancario. E nel frattempo, last but not least, petizioni online chiedono a gran voce la proroga della apertura della Quadriennale, “Fuori” – riuscitissima edizione ma restata aperta per un totale di poco più di trenta giorni, se i calcoli sono giusti – e hanno ottenuto la riapertura della Biblioteca di Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, patrimonio romano dalla storia ultracentenaria e punto di riferimento per generazioni di storici dell’arte romani e non, chiusa al pubblico da più di un anno, sebbene operativa a livello di personale.
È auspicabile dunque che queste “strategie oblique” non restino come casi isolati, dettati solo dall’urgenza del momento, ma che possano essere una sorta di traccie, di perlustrazioni, di esperimenti, una palestra di cambiamento di cui approfittare per immaginare un sistema dell’arte diverso, meno stereotipato, e perché no, magari migliore, per non farsi trovare impreparati quando arriverà il futuro post-pandemico.
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