«L’intruso si introduce di forza con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso senza permesso e senza essere stato invitato, bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che altrimenti perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto d’ingresso e di soggiorno, se è già aspettato e ricevuto senza che niente di lui resti al di là dell’attesa e dell’accoglienza, non è più l’intruso, ma non è più nemmeno lo straniero. […] Una volta giunto, se resta straniero e per tutto il tempo che lo resta, invece di naturalizzarsi, semplicemente, la sua venuta non cessa, continua a venire e la sua venuta resta in qualche modo una sua intrusione».
Così lucidamente Jean-Luc Nancy scriveva sull’intrusione di un insospettato corpo estraneo nel Körper del soggetto (il suo) e la loro convivenza. Ora che, hic et nunc, questa dimensione di ibridazione si è tradotta in contagio planetario, scompaginando una società globalizzata, denudata dalle proprie certezze e non proprio priva di colpe, non resta che analizzarne il peso e il senso. Serve metabolizzare la gamma delle emozioni (smarrimento, paura, angoscia e il grande dolore per i caduti sul campo) e tentare di rielaborare il mondo e l’In-der Welt-sein, l’essere nel mondo, l’Esser-ci.
Non resta che decostruirci allora, poiché ciò che si è stati, non è più, come è giusto che sia. E, decostruire quel mondo sbalorditivamente fondato sulla pelle e sulla superficie delle cose e sul primato del profitto che molto egoisticamente ci appagava nel pieno di un fallimento annunciato. Dunque, nella consapevolezza della diseguaglianza sociale, della non sostenibilità ambientale, del cambiamento climatico, del primato dell’apparenza, del lassismo, dell’incompetenza generalizzata, del buonismo, del politically correct, dell’individualismo sfrenato e del narcisismo, dell’arrivismo e del carrierismo sfrontato e dell’egotismo, effetti tipici del turbo-capitalismo. Penalizzandone la profondità o per meglio dire, citando Gilles Deleuze, l’intensità, ossia quel dinamismo molteplice che riguarda la sensazione ed il concetto e che attraversa il fare, garantendone l’azione nell’orizzonte della differenza. Dunque spronando quella capacità di un pensiero del divenire.
A scanso di equivoci, non credo affatto che il Covid 19 sia una punizione divina alle iniquità del mondo globalizzato. Tutt’altro. La scienza ci spiega fatti e misfatti apoditticamente. In questo tempo viratico, ciò su cui mi preme ragionare con tutti i miei sofismi, senza pretesa alcuna di fornire risposte, piuttosto sollevare interrogativi, perplessità, eresie, è l’insufficienza del nostro essere e, per certi versi, l’azzardo su cui si innesta il mantra diffuso del “ritorno all’ordine” e dell’anelata aspettativa del ritorno alla “normalità”. Si badi bene che come essere senziente e razionale, mi auguro di uscire il prima possibile dalla catastrofica epidemia.
Ciò che personalmente non mi auguro è di ricongiungermi alla cosiddetta normalità ossia la consuetudine dello style life nonché del modo di agire disfunzionalmente. Quella normalità che ha tollerato le discrepanze sociali, politiche ed economiche di cui si elencava sopra. Quella normalità disfunzionale che ha strutturato, costruito, sostenuto, gestito e corroborato l’asimmetria sociale, poetica e politica, non meno di quella psichica. Quella normalità disfunzionale che, solo per restare nel campo della cultura, ha prodotto oltre a un universo semantico mirabolante, anche un display dell’arte, congelato su format usurati e ripetitivi (ma per molti sublimanti e garantisti) che hanno contribuito a premiare troppo spesso mediocrità e incompetenze, avventurieri e parvenues, a privilegiare amichevoli relazioni pericolose, a indulgere latenti maschilismi e ad avallare oceaniche ondate di retorica e giochi di mercato.
Ed ora, nell’epoca viratica in cui siamo affondati, tutto ciò si mostra nella sua filosofica e pratica nudità (per scomodare Agamben), nella sua fallacità e inadeguatezza del relazionarsi al nuovo, all’immaginifico, all’estraneo. Mai come ora bisognerebbe impostare sia pur in ritardo, una ridiscussione del Noi nell’agire artistico e una riscrizione del corpo dell’arte nel corpo di un mondo rideclinato, ad avanzare una visione. Mentre constatiamo, attoniti, come il ripristino di vecchi cliché e desueti strumenti per aggirare l’emergenza si arenino a mostre e tour virtuali, ripresi pari pari dagli anni novanta o/e all’inedia di tonnellate di immagini ripescate da archivi, mostre, curriculum postate sui social e logorandosi nell’ognun per sé.
Insomma, una sequela di polverosi tools, visibilmente perdenti nella sfida del cambiamento, che sembrano ignorare una sterzata radicale, una spinta ad una elaborazione collettiva e in progress sulla anomia del presente. Stazionando ancora nella filigranata illusione che tutto ritornerà come prima (perché mai?) e non elaborando l’urgenza della trasformazione, posto che il virus certamente contribuirà in parte a ripulire le scorie o gli scarti di quella normalità ostentata.
E, se così fosse: ben venga! Dalle mie profonde incertezze, non vedo altro che un impegno collettivo che passi attraverso la dialettica e l’analisi, attraverso la riconfigurazione di pensieri molteplici e differenti e di costruzione intellettuale che ci aiuti a negoziare con l’orizzonte distrofico/distopico che si profila. Sperimentiamo quell’audacia evocata settimane fa da Alessandro Baricco come antidoto al trauma collettivo. Partendo dal presente, dall’essere in atto (e non in potenza), da spunti già attivi come per esempio “Un mondo nuovo” suggerito dal Museo Maxxi, da Radio Gamec di Bergamo, dalle dirette aperte da exibart ed altre piattaforme, dagli Extra del Centro Pecci, dal broadcasting di Performa, dai corsi formativi del MoMa, non ultima la proposta di Sylvain Bellenger e Sergio Risaliti che dovrebbe però allargarsi a figure centrali come teorici, critici, curatori e giornalisti (non gazzettieri) che compongono il puzzle.
“Maximum effort, minimum result” come il paradosso di Francis Alÿs inventato per rovesciare la dinamica del sistema di produzione capitalista. Immaginando una sorta di “Laboratorio del divenire”, che inneschi la discontinuità col passato e non perpetri la sua restaurazione, attraverso momenti di attivismo culturale e politico collettivo che ci indirizzi a ridisegnare insieme il pensiero e l’azione.
Certo si parla di una “nicchia” del mondo che certo non ha mai avuto la centralità di altre discipline e dunque abituata alle sfide. Riusciremo a costruirne qualcuna, considerando il presente come il tempo dell’agire piuttosto che levitando in una epoché apocalittica e transitoria? Riusciremo a tessere insieme il nostro battito del cuore, la nostra emotività e la nostra psichicità alla nostra pragmaticità e, soprattutto, alla nostra capacità di immaginazione e di utopia?
In questo tempo insoluto ma fluttuante, di pieni e di vuoti, di memorie e di proiezioni, di stelle e di nubi, non si può non riflettere sulla flagranza del presente che è l’unico tempo da declinare, con la sua emergenza, la sua porosità e la sua rischiosità. Riscontrare, con meraviglia e sorpresa, come per esempio, il mondo dell’educazione ha rovesciato lo stallo dell’emergenza, che cristallizza per certi versi il coté dell’arte. Un pianeta quello educativo (che insieme a quello della Ricerca) è stato finora bistrattato e penalizzato decennalmente da politiche restrittive. L’universo scuola, fondante la formazione, ha rovesciato gli occhi aggirando l’urgenza e iniziando una delle sfide più epocali della nostra società contemporanea, in un paese tecnologicamente non tra i più avanzati.
Questa galassia formata da ben otto milioni e mezzo di studenti e di migliaia di docenti, su cui si gioca il paradigma del futuro, ha saputo reiventare modalità, attitudine e strategie. Un work in progress che sta accelerando la propria visione. Quasi come in una constructed situation di Tino Sehgal, si sta riabilitando in una avventura senza precedenti (nonostante le idiosincrasie) continuando nella variazione del proprio percorso didattico, riattribuendosi quella dignità e solidità che la scuola ha e deve mantenere, essendo la colonna portante di qualsiasi società civile.
La cultura si radica e si segmenta da qui. Poiché come sosteneva Hannah Arendt “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani.” Peraltro adattandosi a una costellazione di dispositivi precari, come la insufficienza degli eBook e dei PC in alcuni casi, e in parte aiutandosi con la recente e sacrosanta riapertura delle librerie e delle cartolerie, che tende a coprire non solo le oziose letture ma le insospettate esigenze di studenti e artisti che necessitano di materiali didattici, libri, kit multimediali, materiale per disegnare, dipingere e creare.
Infine, rovesciare gli occhi, deterritorializzare lo sguardo, è un atto di generosità che instaura, foucaultianamente, metodologie del dare e del darsi ora e non poi, piuttosto che inabissarsi nel chiedere e nell’avere incondizionato. Il ruolo e la sfida della cultura sta in questa differenza.
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