Cantiamo dai balconi, giocherelliamo con i migliori whatsapp che girano. Uscire a buttare la mondezza è un’esperienza tanto surreale quanto imperdibile. Andare a fare la spesa, sebbene in fila e con la mascherina, è una fantastica scusa per uscire di casa. Finalmente ci ritelefoniamo. Sentiamo le voci degli amici ammutolite da tempo dai messaggi scritti.
Ieri, sembra un secolo fa. In pochi giorni è cambiato tutto, tutto quello che era fino a ieri, sembra appartenere a un altro mondo. E chissà semmai tornerà.
Tra le cose cambiate rapidamente ci sono alcune delle idee più recenti. Quelle che fino a ieri hanno governato parte delle nostre attitudini comportamentali e mentali, due in particolare.
La prima: l’idea figlia della recente filosofia Made in France, secondo cui l’esperienza umana è una simulazione della realtà e, anziché muoverci tra fatti, oggetti, idee e relazioni, intratteniamo le nostre pseudo pratiche conoscitive ed esperienziali con dei simulacri. La seconda che l’individuo contemporaneo è solo perché ha immolato la sua socialità, e prima ancora la sua umanità, sull’altare della tecnologia, isolandosi sempre di più fino a cancellare relazioni affettive e a digitalizzare la propria vita.
Se c’è qualcosa di buono che il maledetto coronaviris porta con sé – non so se sia buono, ma a volte i cambiamenti, anche quelli più drammatici, in prospettiva riservano qualche aspetto meno nefasto di quanto appariva all’inizio – è il bagno di realtà a cui ci obbliga. La realtà è tornata ad essere una. Cruda, angosciosa, terribile. Ma una, e non surrogata. Una, e non parallela. E tutti dobbiamo fare i conti con essa, liberandoci di idee, consumi, problematiche tanto loffie quanto superflue.
Mi si dirà, è l’emergenza bellezza. Vero, e quindi è in atto una costrizione da cui non possiamo sottrarci. Ma in questa nuova dimensione di realtà reale, stiamo dimostrando quanto noi umani, e forse in particolare noi italiani che riusciamo a somigliare addirittura ai cinesi, siamo flessibili, resettabili. Veloci e plastici. Soprattutto plastici, così come è il nostro cervello che rimane plastico anche in vecchiaia, a differenza di quanto si pensava fino a pochi anni fa.
Ci farà bene questo bagno di realtà? Impareremo a distinguere tra prodotti necessari e prodotti la cui necessità è creata solo da efficaci e seduttive sirene consumistiche? presto per dirlo, ma le possibilità per resettare anche il nostro modello di vita, per distinguere ciò di cui un Paese civile ha veramente bisogno: la sanità, l’assistenza e, aggiungo, la solidarietà, ci sono.
Starà a noi, ai politici che eleggeremo, restituendo forse anche senso alla democrazia, essere conseguenti e coerenti.
Veniamo al secondo punto: la nostra epoca techno-nichilista, come è stata definita (Mauro Magatti) in cui l’uomo è solo nel suo guscio digitale, lontano da legami affettivi. Anche qui, una precisazione. Ora forse, che siamo in lockdown, che siamo confinati in casa e isolati gli uni dagli altri, si capisce meglio che cosa significa veramente distanza affettiva. E si capisce e si apprezza meglio la vicinanza affettiva.
Ma, oltre a ciò, se oggi non avessimo la tanto vituperata tecnologia saremmo soli sul serio. Se la nonna non potesse telefonare e se noi non potessimo scambiarci i video sul coronavirus e finalmente farci due risate, se non fossimo in contatto permanente tra le mille chat attivate, di amici e familiari, che ci fanno perdere anche un sacco di tempo (diciamolo), tempo già slabbrato in un non tempo pericolosamente tutto uguale, se non vedessimo attraverso internet che a Roma si canta dai balconi quanto a Milano, se non si potesse insegnare, cenare, abbracciarci online, beh, saremmo soli sul serio. Saremmo nella merda vera.
Perché questa è l’unica, vera possibilità di contatto che ci è rimasta, navigando nella rete, facendoci spazio tra news e fake news, consigli, video, foto, creatività a gogo, esempi altissimi di capacità di lavoro e di solidarietà umana, siamo tutti svegli e vivi perché siamo tutti online.
Anche per indire i flashmob in cui la fisicità reclama con forza il suo diritto all’esistenza. E forse anche da questo punto di vista la realtà si raggruma in un’unica dimensione, dove tra offline e online non c’è più distinzione.
Rispetto a questo direi che va in secondo piano il fatto che oggi la soggettività sia un prodotto sociale, riconosciuta attraverso i media e i social network. Se questo è il prezzo, occorre pagarlo. E non smettere di pensare criticamente, magari per correggerlo.
Strano, pensavo all’inizio di questa brutta storia del Covid -19. Strano che in un momento in cui i giovani erano ritornati in piazza, in cui si avvertiva la voglia e il bisogno di esserci, in cui la vicinanza non appariva feticistica ma esigenza vera dopo anni di sonno digitale, strano – pensavo – che proprio ora ci piomba addosso questo virus maledetto che ci riporta tutti a casa. Strano e, come si dice anche nelle migliori gag, strano ma vero.
Però ora sono qui a scrivere sul mio pc queste cose che domani o oggi stesso saranno pubblicate online, forse riprese da altri siti, social network e da altre parole, perché finalmente le parole online si intrecciano con quelle fisiche, sia pure a distanza. Mentre, navigando sui vari siti alla ricerca smaniosa come tutti degli ultimi aggiornamenti sul maledetto virus, le pagine web che apro si riempiono di pubblicità assurde: compra quello, prova quell’altro, c’è questa offerta riservata solo a te che scade il 31 marzo!
Che pena, i creativi, le agenzie pubblicitarie, i grandi network di smistamento degli adv, a differenza di noi, non si sono ancora resettati. Ancora ci propinano cose di cui nessuno sente il benché minimo bisogno. Questo sì che va nella direzione di Baudrillard, ma direi al contrario, perché niente, come i consumi feticistici, sembrano essere irrilevanti per la comprensione della nostra vita.
Infine, una proposta ad Exibart e a chi ci sta: istituiamo velocemente un premio per il miglior video made in home all’epoca del coronavirus. Ce ne sono già tanti pregevolissimi. Per fortuna.
Stay tuned!
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