Shaping Tomorrow Today è una piattaforma di ricerca sviluppata in collaborazione con King’s College London e Milano Art Guide, al fine di indagare gli effetti della pandemia di Covid-19 sui lavoratori culturali e creativi operanti in Lombardia, la zona in Italia maggiormente colpita dal virus COVID-19. L’obiettivo è di dare voce alla comunità culturali al fine di delineare azioni, campagne e proposte concrete che possano contribuire a migliorare il futuro del settore. È possibile partecipare attivamente alla ricerca compilando un questionario anonimo a questo link.
Nell’ambito del progetto, la rubrica Shaping Tomorrow Today insieme a Exibart vuole offrire una visione della situazione del settore grazie alle storie, alle esperienze e ai punti di vista di alcuni suoi protagonisti. Dopo la prima intervista a Francesco Martelli, è oggi la volta di Lara Facco, una delle voci più importanti per quanto riguarda la comunicazione dell’arte in Italia.
Mi racconti del tuo lavoro e di come è cambiato negli ultimi mesi, conseguentemente alla pandemia di Covid-19?
Mi occupo da circa vent’anni di comunicazione e ufficio stampa nell’ambito dell’arte contemporanea e della cultura, con un percorso che è partito all’interno delle istituzioni, arrivando poi nel 2010 a dare vita al progetto “Lara Facco”. Nel tempo abbiamo creato una squadra, e, anche se il nome è il mio, ci sono almeno una decina di persone che collaborano al progetto, per questo mi piace parlare sempre al plurale. Siamo partiti dall’ufficio stampa per arrivare oggi a una rosa di attività e di servizi che include la consulenza sulla comunicazione digitale, piani marketing, advertising, comunicazione strategica, consulenze sulla comunicazione di crisi, che in questo periodo per ovvie ragioni è diventata predominante, e sui programmi, quindi offriamo un lavoro a tutto tondo a seconda delle esigenze dei nostri clienti. Nell’ultimo periodo, e specialmente da febbraio 2020 a oggi, tutta la parte consulenziale è diventata molto più forte e molto più richiesta. Quando questa è iniziata l’emergenza sanitaria, innanzitutto è emersa l’esigenza di rassicurare i nostri clienti sul fatto che, anche in una situazione inedita, complessa, difficile, come quella che si iniziava a prospettare, avremmo trovato il modo giusto di comunicare tutto quello che sarebbe stato necessario comunicare da quel momento in avanti. Come professionisti che ci occupiamo di comunicazione era chiaro che avremmo dovuto trovare altre strade, altre vie, altre modalità, intercettando nuovi bisogni e quindi cambiando linguaggio e trovando anche altri strumenti, altri mezzi per comunicare, e che avremmo dovuto supportare i clienti nella riprogrammazione degli eventi dal vivo e nella nuova programmazione digitale. Questo processo, in realtà, era iniziato ben prima dello scoppio di Covid-19: avevamo iniziato a ripensare il modo di comunicare l’arte contemporanea e avevamo già cominciato a ideare nuovi progetti, che sono stati poi semplicemente accelerati dalla pandemia (penso, ad esempio, alla creazione e al lancio della nostra newsletter editoriale Telescope). La nostra modalità di lavoro, basata sulla flessibilità, le riflessioni in atto e i progetti su cui stavamo lavorando ci hanno quindi consentito di essere pronte a gestire una situazione così straordinaria e a sviluppare nuove idee, in collaborazione con i nostri clienti.
Milano da anni rappresenta il cuore della scena culturale e creativa italiana. Come credi che la pandemia impatterà sulle dinamiche della città?
Fino a circa un anno fa, Milano era vista come una città dove chiunque arrivasse aveva l’idea di potersi realizzare, di poter trovare la sua opportunità, un po’ come la New York degli anni ’90 inizio 2000. Ma nel momento in cui questa attrattività è venuta a scemare, la città si è spenta a sua volta. L’enorme battuta d’arresto che la città si è trovata a vivere ha posto in evidenza anche le fragilità di un sistema, facendo emergere alcuni aspetti che probabilmente sarebbero emersi comunque, ma con tempi più lunghi. In primis, è emerso in modo chiaro come di fatto sia una città che dipende moltissimo dalle energie che vengono dall’esterno. Dal primo lockdown in poi moltissime persone si sono trasferite nelle loro città d’origine, nelle loro regioni d’origine, hanno lavorato lì per mesi, continuano a lavorare da lì, perché magari stanno meglio in una situazione diversa, più confortevole, con le loro famiglie, con case più grandi, con un costo della vita più basso, con più verde attorno, meno inquinamento. Questo evidentemente non è solo la conseguenza di una situazione generale, è anche l’emersione di una serie di fragilità di un tessuto che comunque ha privilegiato certi aspetti rispetto ad altri, dalla competitività all’iper-offerta (di tutto). Problema che ha toccato anche il mondo della cultura, causando una sovrapproduzione di eventi, spesso a discapito della loro qualità. Credo sia quindi necessario ripensare un modello, trovando un punto di equilibrio tra le nuove modalità emerse in questo periodo e ciò che c’era prima. Probabilmente l’unico vero faro da perseguire è sempre quello della qualità, da intendersi a 360°: qualità della vita di chi abita una città, qualità dell’offerta culturale che anima una città, e qualità di ogni singolo aspetto che compone un luogo complesso come Milano.
Ritieni che la situazione connessa alla pandemia abbia in qualche modo posto in dubbio il valore e l’importanza della cultura nella società e il suo impatto sulla qualità della vita?
Io mi auguro che lo metta in discussione. Credo che negli ultimi anni ci sia stato un fraintendimento generale del ruolo della cultura, a causa di un eccesso di quantità, che va necessariamente a discapito della qualità, e delle modalità di valutazione delle performance culturali. La cultura in realtà ha un ruolo civico, è centrale nella creazione del benessere dei cittadini, nel fornire strumenti di comprensione di quello che accade, nell’offrire stimoli che alimentano una crescita del pensiero e che aiutano a costruire una cassetta degli attrezzi che poi viene utile nel momento in cui si devono affrontare delle difficoltà, e soltanto se si è in grado di attingere a un pensiero più alto, più astratto, per certi versi, si può anche arrivare a immaginare delle soluzioni e dei modi per fronteggiare le difficoltà. Nel momento in cui tutto questo viene messo in secondo piano, e le performance culturali sono valutate in base al numero di visitatori, e non in base a quello che resta realmente di una certa esperienza, ecco, qui credo che ci sia un problema. Questo è un tradimento della missione della cultura. Quello che mi auguro è quindi che Covid non metta in discussione il ruolo della cultura ma questo fraintendimento e i parametri con cui negli ultimi anni si è giudicata la performance di musei e istituti culturali.
Ma se vogliamo vedere i lati positivi, ritieni che ci siano delle opportunità che sono emerse da questo scenario?
Premetto che credo fortemente che da ogni situazione si possa trarre qualcosa di positivo: dietro a ogni crisi ci sono delle opportunità ed è fondamentale riuscire a far tesoro del cambiamento, anche per non soccombere. Un aspetto importante che è emerso è che le persone hanno fame di cultura, evidenziando come essa sia un bisogno fondamentale e parte strutturale della nostra vita. Per paradosso questo si nota in un momento in cui la cultura non è accessibile o comunque lo è in maniera molto limitata. Su questo ci sono dei riferimenti storici importanti, ci sono studi che sono stati fatti nei decenni scorsi, sempre associati a momenti di crisi, che mostrano come in concomitanza con una crisi economica i consumi culturali tendono a crescere. Questo perché si cercano, se non risposte, altre domande che aiutino a mettere a fuoco delle risposte nei momenti di difficoltà. La cultura, infatti, ha un ruolo che va oltre a quello dell’evasione. Un esempio importante è il fatto che il MoMa sia stato fondato nel 1929, nel pieno della peggiore crisi economica che ha colpito gli Stati Uniti il secolo scorso, e nella città epicentro di tale crisi. E non è un caso se proprio lì per la prima volta si è deciso di collezionare solo contemporaneo, andando a cercare testimonianze e strumenti di lettura rispetto a quanto stava accadendo in quel momento storico.
Quali sono gli aspetti che a tuo avviso devono essere presi in maggiore considerazione per la ripartenza culturale?
Sicuramente bisogna partire dagli artisti, che rappresentano il centro del sistema e dei discorsi che stiamo facendo. Se non ci fossero gli artisti non ci sarebbe tutto il resto, ovviamente, ma, nonostante ciò, continuano a rappresentare una fascia debole. Gli artisti appartengono a una categoria che di fatto non esiste, non ha una vera riconoscibilità, non ha uno statuto giuridico. In un momento di grande crisi e trasformazione come questo, credo che gli artisti siano stati il vero anello debole della catena, e quelli che hanno pagato le conseguenze più grosse, più importanti, perché non hanno tutele, generando situazioni di vera difficoltà. Adesso sarà interessante vedere come evolveranno le cose: è fondamentale che possano avere delle tutele, che possano avere un istituto previdenziale che si occupa di loro o che possano chiedere assistenza economica in un momento in cui si trovano bloccati. Al tempo stesso, sarà altrettanto interessante vedere e cercare di capire come il mondo della cultura in generale risponderà, e se si definiranno nuovi equilibri di mercato, magari a beneficio di una visione più civica, con un ritorno a un ruolo più sociale dell’arte e della cultura, mettendo in secondo piano le logiche più puramente speculative e finanziarie.
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