Shaping Tomorrow Today è una piattaforma di ricerca sviluppata in collaborazione con King’s College London e Milano Art Guide, al fine di indagare gli effetti della pandemia di Covid-19 sui lavoratori culturali e creativi operanti in Lombardia, la zona in Italia maggiormente colpita dal virus. L’obiettivo è di dare voce alla comunità culturali al fine di delineare azioni, campagne e proposte concrete che possano contribuire a migliorare il futuro del settore.
Nell’ambito del progetto, la rubrica Shaping Tomorrow Today di Exibart offre una visione della situazione del settore grazie alle storie, alle esperienze e ai punti di vista di alcuni suoi protagonisti.
Questa intervista è con Paola Caterina Manfredi, fondatrice di PCM Studio.
Mi racconti del tuo lavoro e di come è cambiato negli ultimi mesi, conseguentemente alla pandemia di Covid-19?
La mia storia professionale parte dal mio grande amore per la scrittura. Pensavo avrei fatto l’autore televisivo e per questo sono a un certo punto approdata in Rai, alle Relazioni Esterne, arrivando così a conoscere questo mestiere e i suoi professionisti. Mi si è rivelato un mondo di cui ho deciso che volevo far parte. Sono passata poi in una agenzia di comunicazione generalista, occupandomi di politica, impresa, sanità pubblica, grande musica e charity. Dal 2001 ho deciso di focalizzarmi sulla comunicazione culturale, dove ho tentato di riscrivere le regole, applicando a questo settore tutto quello che avevo appreso altrove e nel 2007 ho aperto la mia agenzia. Il motivo per cui mi sono innamorata di questo lavoro è che prende la forma di chi lo fa. È uno dei mestieri più duttili che esistano e lo si può interpretare in un numero infinito di modi. Ho avuto l’opportunità di dare forma al mio, disegnando un approccio, uno stile e un metodo che ha fatto scuola, e lavorando sulla formazione dei giovani. Prima del Covid eravamo in un momento di forte crescita, anche internazionale, con un corrispondente da Londra avviato e uno da avviare a Parigi. Naturalmente, questa è stata la prima progettualità che abbiamo interrotto, per tornare a riflettere su di noi, su base italiana. Abbiamo anche fermato la vita di ufficio da febbraio 2020 e tuttora lavoriamo tutti in smart working. È un sacrificio sicuramente, per l’agenzia ma anche per il team: la partecipazione a un nucleo, la condivisione dello spazio, delle emozioi, delle idee altrui; il sentito, il captato, sono tutte cose che hanno un valore emtivo e formativo altissimo e quello della comunicazione è un mestiere di formazione continua, oltre che di condivisione. Personalmente, ho vissuto tutto il primo lockdown scomparendo: qualsiasi mia necessità non poteva essere presa in considerazione. Al primo posto c’era la conduzione del team e dell’ufficio, la salvaguardia dell’attività, il buon mantenimento del gruppo, il controllo dei flussi di cassa, l’impegno – mantenuto – a non accedere alla cassa integrazione. Tutto questo ha preso il sopravvento su di me, che sono letteralmente scomparsa dentro tutto ciò. Ma questa situazione ha prodotto l’effetto di suscitare inn me uno slancio progettuale inarrestabile.. Con direzioni però molto speciali: durante il primo lock down ho dato vita a un salotto digitale cui hanno preso parte attiva protagonist di primo piano del mondo della cultura e dell’arte, costruendo uno spazio di domande condivise, di temi urgenti, di riflessione del momento. È stata una esperienza formidabile, dove sono nate nuove amicizie e anche qualche progetto.
Milano da anni rappresenta il cuore della scena culturale e creativa italiana. Come ritieni la città abbia reagito durante la pandemia e come credi questa impatterà sulle dinamiche della città nel lungo periodo?
Credo che durante la pandemia, a vari livelli, sia mancato il dialogo. E, per quanto non ci fossero grandi cose da dire, c’era da costruire una voce, e questo non è stato fatto. Milano è stata duramente colpita, ma al tempo stesso non è stata all’altezza della sua storia, della sua identità. Io sono milanese, so benissimo da dove vengo e quali sono i valori della mia città. Milano è una città silenziosa e generosa. Milano è una città di lavoro e di contenuti. Milano è quella città dove dopo due anni che ci abiti ti fa dire “sono Milanese”. Non c’è nessun altro luogo dove questo accade. Forse New York ti può fare questo. Milano è quindi una città speciale, che in questo momento va svegliata; bisogna trovare il modo di riportarla alla sua dimensione originaria, far vibrare la sua identità. Credo che la costruzione del futuro di questa città debba essere basata sulla restituzione. Milano è stata depauperata per anni: tante persone sono venute a Milano negli anni, a prendere lavoro, energie, relazioni, contatti, ritmi e per poi però scappare a portare le proprie energie migliori – quelle del tempo libero, della fantasia, dell’immaginazione – altrove. E lo stesso è avvenuto dopo lo scoppio della pandemia, quando c’è stata una fuga dalla città. Bisogna invertire questa tendenza. Bisogna capire che vivere una città non è solo prendere, ma creare un sistema di restituzione. Un tema che tocca molto anche me, che oggi per ragioni familiari vivo a Lecco: un dato che non incide sulla mia milenesità, sulla necessità per me di essere un cittadino che agisce nella città, mettendomi a disposizione. Siamo alla vigilia di un’elezione e la nuova giunta comunale dovrà rimettere insieme i pezzi di una città sofferente. È necessario quindi a mio aviso tornare alla radice delle cose, rimettendo linfa nei processi vitali partendo dai suoi valori, favorendo logiche di relazione e scambio, investendo sull’identità di una città incredibile che ha molto da esprimere e che ha una capacità di accoglienza infinita. Una vera città contemporanea, Milano.
Quali sono gli aspetti che a tuo avviso devono essere presi in maggiore considerazione per la ripartenza culturale?
Avverto l’ebrezza dell’essere coeva a questa crisi – con tutto il rispetto per le difficoltà e il dolore delle persone, naturalmente. Da un punto di vista puramente intellettuale è una situazione senza precedenti. Per superare questa crisi a parer mio non dobbiamo essere resilienti – parola che da qualche anno, già prima della pandemia, imperversa nei vocabolari correnti. Ma a mio vedere il Covid ci dice che era un errore: non dobbiamo resistere al cambiamento, dobbiamo invece essere disponibili a modificare noi stessi e non reiterarci applicando sempre il medesimo schema mentale. Dobbiamo essere rigenerativi: rigenerare vocabolario, pensiero, forma mentis. Non ci sono best practice da seguire, dobbiamo scriverle ex novo, avendo il coraggio di farlo, procedendo per tentativi e prosperando nel caos e non rifiutandolo, come chiede la resilienza. Dobbiamo riuscire a guardare con occhi nuovi tutto ciò che sta intorno, tornando alla radice delle cose. Se per una città la propria natura e indole è la nux da cui partire, nel mondo dell’arte il centro di tutto è negli artisti. Durante la pandemia ho intercettato il loro disagio. È chiaro che le istituzioni, i musei, i centri espositivi, continueranno a fare le mostre, ma è facile immaginare che tutta quella over produzione espositiva cui eravamo abituati non ritornerà rapidamente e questo causerà molte difficoltà agli artisti, privati dell’orizzonte progettuale, del traguardo espositivo. Essere radicali oggi significa proteggere loro, metterli nelle condizioni di lavorare, ricordandoci bene che tutto il mondo dell’arte ruota attorno alla produzione artistica. In questo credo sia fondamentale una modalità di progettazione basata sulla comunione di intenti: le cose si fanno utilizzando risorse condivise, intelligenze collettive. E in questo un ruolo fondamentale è giocato anche dalla comunicazione: comunicare è una parola antica il cui etimo “mette insieme”. Viviamo in un’era in cui c’è tantissima comunicazione, ma al tempo stesso mai siamo stati tanto divisi e disinformati come ora. Quindi è necessario anche ripristinare la responsabilità dell’informazione, distinguendo la comunicazione dall’informazione. In questo grande caos bisogna tornare alla radice delle cose.
La tecnologia ha giocato un ruolo fondamentale in questo periodo. Quali sono i rischi e le opportunità di questo strumento e come vedi l’integrazione dei canali digitali nel settore culturale?
La tecnologia c’era anche prima del Covid, ma non era sufficientemente utilizzata. Quest’anno è stato chiarito a tutti che è imprescindibile ed è diventata una necessità interiorizzata. Non credo però che si stia davvero utilizzando la tecnologia come si dovrebbe, ovvero con la disponibilità a condurci verso quello può veramente offrire, oltre la nostra puntuale immaginazione nutrita di vecchi schemi. Anche in questo dovremmo modificare il nostro mindset e, parallelamente, lavorare sulla scuola, sulla formazione. Se le scuole non producono competenze adeguate, noi continueremo ad avere approcci vetusti a un mondo nuovo. Per esempio, in nessuna facoltà legata al mondo dell’arte della cultura o anche della comunicazione, vi sono corsi dedicati a costruire conoscenza tecnologica. Non dobbiamo permettere che le competenze digitali siano autogestite: è un rischio per il nostro mondo futuro, quello di vivere in un mondo di forte approsimazione. Ogni singola persona che abbia un account Instagram è, di fatto, un editore: è prioritario quindi avere competenze tecnologiche ma anche linguistiche e culturali, a rischio di trovarci in un mondo dove non si genera altro che dispersione. Nel settore culturale in questo ultimo anno c’è stata una sovraproduzione di contenuti digitali, molti dei quali scadenti. Pochi sono stati i progetti di valore. Pochissimi quelli che hanno costruito valore per la colletività. Quindi è fondamentale formare le persone in modo cross-disciplinare, per essere pronti a vivere in questo nuovo mondo dove le possibilità derivanti dalla tecnologia e la comunicazione sono i due grandi asset che invaderanno la vita di ciascuno, compreso quella degli artisti.
Ritieni che la situazione connessa alla pandemia e le scelte che sono state effettuate abbiano in qualche modo posto in dubbio il valore e l’importanza della cultura?
In questa situazione abbiamo avuto una dimostrazione palese di quanto questo settore non sia nell’agenda politica, ed è andata persa una grande opportunità. Non posso, dando sfogo all’ingenuità, non immaginare la potenza di un messaggio in epoca pandemica quale per esempio «Andate ai musei e nei teatri perchè sono luoghi sicuri», come effettivamente sono. Il museo polveroso, se l’avessimo aperto, sarebbe diventato un luogo di vita? Certamente perderemo occasioni così come sapremo coglierne altre: siamo qui per portare avanti la convinzione che dentro a questo mondo dell’arte e della cultura ci siano le chiavi di una rinascita del nostro Paese, che deve partire anche da una maggiore tutela degli artisti e da una riflessione su cosa significhi oggi essere una istituzione culturale.
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