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Shaping Tomorrow Today #4: intervista a Gabi Scardi
Attualità
Shaping Tomorrow Today è una piattaforma di ricerca sviluppata in collaborazione con King’s College London e Milano Art Guide, al fine di indagare gli effetti della pandemia di Covid-19 sui lavoratori culturali e creativi operanti in Lombardia, la zona in Italia maggiormente colpita dal virus. L’obiettivo è di dare voce alla comunità culturali al fine di delineare azioni, campagne e proposte concrete che possano contribuire a migliorare il futuro del settore.
Nell’ambito del progetto, la rubrica Shaping Tomorrow Today di Exibart offre una visione della situazione del settore grazie alle storie, alle esperienze e ai punti di vista di alcuni suoi protagonisti.
Questa intervista è con Gabi Scardi, curatrice d’arte contemporanea.
Come descriveresti il tuo lavoro, e come è cambiato in seguito alla pandemia di Covid-19?
Il mio lavoro è interessante, coinvolgente, appassionante; mi porta a cambiare continuamente punto di vista; è un continuo aprire finestre sugli aspetti più diversi e inaspettati della realtà; mi consente di stupirmi; lo considero un privilegio. Inoltre si tratta di un’attività che si autoalimenta in senso concettuale e in termini di passione. La ricerca continua a darmi grande soddisfazione e ho sempre trovato feconde le relazioni, soprattutto con gli artisti. Questo mi ha consentito di portarlo avanti questa attività con gioia, per anni, malgrado lo scarso riconoscimento di cui il lavoro culturale soffre in Italia. Penso che una delle caratteristiche fondamentali per una professione basata sulla riflessione e sulle scelte, quale la curatela, sia l’indipendenza di pensiero e di postura. Probabilmente la consapevolezza di questo mi ha portata anche a mantenermi autonoma nella vita concreta, pur attribuendo io grande importanza alle istituzioni, che riconosco quale perno necessario della vita culturale di un paese. L’altra faccia di questa indipendenza, però, è la precarietà. E lo dico con la consapevolezza di essere privilegiata: nell’arco di molti anni ho lavorato tanto e bene, e sono riuscita a realizzare molti dei progetti a cui tenevo. Per questo ho sempre potuto trarre energie da quello che facevo. D’altra parte, sia la precarietà sia la passione portano spesso a un carico di lavoro eccessivo: è difficile rinunciare. E il risultato è che ho sempre lavorato tanto, moltissimo. In questo senso, la cesura determinata dal Covid è stata profondissima, e si è accompagnata, oltre cha a un senso di incredulità e di spaesamento, al crollo effettivo, nell’arco di poche settimane, di progetti a cui avevo lavorato molto a lungo; soprattutto progetti espositivi, che sono il cuore della mia attività e possono richiedere anni di elaborazione. È stato uno scompenso spaventoso. Un appiglio mi è arrivato, in quel momento, dalle capacità di espressione di molti artisti: in questo senso il momento si è prestato alla riflessione e all’analisi.
Quali soluzioni vedi per una ripartenza culturale?
L’unica soluzione che vedo è quella di sostenersi a vicenda e valorizzare l’arte, valorizzare gli artisti, e valorizzare anche i professionisti che li affiancano e che fanno, a loro volta, ricerca e speriemntazione. In Italia, al contrario che nella maggior parte dei paesi occidentali, non c’è stato quasi sostegno per gli artisti, né per le altre figure che si occupano di cultura. E questo è molto grave perché non si è capito quale grande contributo queste figure possano dare nell’elaborazione dei traumi, sostanziandoli, dando loro significato, costruendo ponti per il futuro; immaginando soluzioni e, soprattutto, creando simboli. L’Italia si presenta come il Paese dell’arte, il Paese della cultura, ma in molti casi queste dichiarazioni risultano essere vuotamente retoriche. La sensazione è che invece alla cultura, a maggior ragione alla cultura nel suo farsi, non venga attribuito un valore effettivo e profondo; ci si limita a interpretarla in termini di riempitivo e di intrattenimento; interpretandola di fatto come un’attività ininfluente. La scarsa considerazione per chi di cultura si occupa è la ovvia e diretta conseguenza di questo. La questione dello scarso rilievo attribuito all’arte investe sia la sfera pubblica sia il settore privato, sia la relazione tra questi due ambiti. Occorre lavorare molto su questi punti, a partire dal fatto che il valore intrinseco, sostanziale, profondo della cultura deve costituire una reale convinzione per chi se ne occupava; e va asserito e sostenuto con insistenza; e se ne devono trarre congrue conseguenze nella propria attività.
Milano da anni rappresenta il cuore della scena culturale e creativa italiana. Come ritieni la città abbia reagito durante la pandemia e come credi questa impatterà sulle dinamiche della città nel lungo periodo?
Certo l’impatto su Milano è stato profondo. Non saprei però dire se sarà duraturo, o se la città ripartirà subito con l’energia che negli ultimi anni ha saputo esprimere.
Ciò detto credo che anche Milano debba mettere in campo una riflessione profonda sulla propria identità culturale. Io temo infatti che negli anni si sia proposta un po’ troppo come vetrina, lavorando invece poco sulla ricerca culturale, sull’idea di generare cultura. Inoltre il settore pubblico ha delegato moltissimo ai grandi soggetti privati. Infine, durante la pandemia la frammentazione delle infrastrutture culturali pubbliche e la scarsa vicinanza nei confronti degli artisti e dei lavoratori dell’arte è risultata particolarmente evidente. Mentre in altri paesi iniziative di sostegno agli artisti messe in atto con grande tempestività durante il primo periodo della clausura ci sono staei; me ne viene in mente una per tutte: l’invito a realizzare progetti che potessero essere visti dalle finestre Artists in Quarantin; un modo per asserire che la cultura c’è e per sostenere gli artisti che ha visto una cooperazione tra sette istituzioni tra le quali Van Abbemuseum di Eindhoven, Reina Sofia, Museum of Modern Art in Warsaw e MHKA Museum of Contemporary Art in Antwerp. Non voglio enfatizzare la rilevanza di questa specifica iniziativa, ma la sua attivazione è stata una dichiarazione, una manifestazione di prossimità nei confronti degli artisti e l’esito una riflessione condivisa in un momento convulso. Tornando a Milano, urge che la città possa mettere in campo un agire organico, propositivo e coordinato, vicino a chi l’arte la pensa e la genera, e capace di rendere dignità, autonomia e identità alle sue strutture permanenti: unico possibile percorso sia per metterle in condizione di dialogare con il mondo alla pari, sia per consentire loro di operare davvero in profondità sul tessuto sociale, quindi anche sulla sua vitalità e sul senso di appartenenza della città. Ho notato invece che sono in piena crescita molte iniziative interessanti in località più piccole e talvolta decentrate, dalla Puglia alla Val Camonica. Realtà che esistevano già prima, ma che nel momento in cui vedi sgretolarsi l’immagine di un centro acquistano maggiore importanza, anche perché sono stati in grado, malgrado tutto, di conseguire risultati interessanti.
La tecnologia ha giocato un ruolo fondamentale in questo periodo. Quali sono i rischi e le opportunità di questo strumento e come vedi l’integrazione dei canali digitali nel settore culturale?
In merito al digitale, non si è verificata una rivoluzione inaspettata, ma c’è stata sicuramente una grandissima accelerazione. Da un lato l’online è un’opportunità, ci permette di colloquiare anche con persone che si trovano a grande distanza, con disinvoltura, con ricadute positive in termini ecologici, economici, ottimizzando tempo e energie. Dall’altro questo sviluppo può essere interessante come in termini di creatività.
D’altra parte però trasferire online la fruizione di opere nate per essere sperimentate nello spazio è assolutamente riduttivo: l’arte vive della tensione della relazione che si sviluppa fra la persona, l’individuo, e l’opera stessa, e questa è una relazione che si rinnova continuamente. Infine, considero cha la cultura costituisca un ambiente immersivo e che l’arte sia esperienza condivisa del presente; anche in senso fisico. I luoghi dell’arte devono essere vissuti: essi sono anche luoghi di tutti, di cittadinanza, di condivisione di contenuti, di valori e di sentire, luoghi pubblici per eccellenza. L’online rischia di svuotare di senso lo spazio pubblico, e di portare alla perdita dell’incontro tra individui diversi intorno a un oggetto comune, l’opera. Per quanto riguarda il periodo della pandemia, devo aggiungere che mi ha molto colpito il fatto che l’online sia stato sfruttato molto come riempitivo e come sostituto di attività sospese quali le visite alle mostre, e poco per parlare del potenziale dell’arte in un momento in cui è importante porsi domande di fondo sul senso della realtà che si è creata. L’arte può invece contribuire a riflettere e a elaborare.
Ritieni che la situazione connessa alla pandemia e le scelte che sono state effettuate abbiano in qualche modo posto in dubbio il valore e l’importanza della cultura?
Più che porlo in dubbio ha evidenziato che è in dubbio, anzi, che questo tema è pensato poco e molto superficialmente. Come dicevo, è stato deludente e frustrante constatare quanto enti ed istituzioni abbiano elaborato soprattutto dei riempitivi fruibili attraverso la cornice del monitor; pretesti comunicativi per mantenere la propria “audience”; più di rado la cultura è stata un prisma attraverso il quale attivare riflessioni su ciò che stava succedendo. In realtà temi quali la vulnerabilità, le tematiche ambientali e la coesistenza con gli altri esseri viventi erano già state ampiamente trattate dagli artisti. Nonostante ciò, adesso forse qualcosa si sta muovendo. Per esempio sta nascendo adesso a Torino un corso sul tema dell’impatto della cultura per il benessere delle persone e delle collettività. Vengono inoltre valorizzate esperienze in piccoli centri e anche in ambienti naturali, come ad esempio avviene in Nahr, Nature Art and Habitat Residency, associazione che mi vede coinvolta, che organizza residenze, ricerche e momenti di incontro prolungati nel tempo in ambienti legati alla natura.