Shaping Tomorrow Today è una piattaforma di ricerca sviluppata in collaborazione con King’s College London e Milano Art Guide, al fine di indagare gli effetti della pandemia di Covid-19 sui lavoratori culturali e creativi operanti in Lombardia, la zona in Italia maggiormente colpita dal virus COVID-19. L’obiettivo è di dare voce alla comunità culturali al fine di delineare azioni, campagne e proposte concrete che possano contribuire a migliorare il futuro del settore. È possibile partecipare attivamente alla ricerca compilando un questionario anonimo a questo link.
Nell’ambito del progetto, la rubrica Shaping Tomorrow Today insieme a Exibart vuole offrire una visione della situazione del settore grazie alle storie, alle esperienze e ai punti di vista di alcuni suoi protagonisti. La prima intervista è a Francesco Martelli, Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano e Direttore della Cittadella degli Archivi. Professore a contratto di archivistica all’Università degli Studi di Milano, è collezionista e appassionato di arte contemporanea milanese.
Mi racconti del tuo lavoro e di come è cambiato negli ultimi mesi, conseguentemente alla pandemia di Covid-19?
La mia qualifica è quella di Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano, mi occupo quindi della conservazione della documentazione prodotta dal Comune, con una componente logistica e tecnologica molto importante. Questo tipo di attività non si è mai fermata durante l’anno, dato che non ci occupiamo solo di documentazione storica ma anche di documenti ordinari per l’amministrazione comunale. Il lato del mio lavoro che invece ha risentito pesantemente della pandemia è il fronte culturale, che si esplica su due filoni. Il primo è il fronte universitario e si basa su una collaborazione stabile con l’Università Statale di Milano, nella quale gli Archivi mettono a disposizione la documentazione e una quota di risorse per realizzare documentari, mostre, ricerche e convegni sulla storia di Milano, grazie alla collaborazione di studenti e docenti. Questo filone è riuscito a sopravvivere al lockdown grazie alla tecnologia, seppur con un ridimensionamento della presenza degli studenti, ma siamo comunque riusciti a organizzare una mostra del ciclo “In Archivio”, dedicata a Philippe Daverio che ci ha lasciati pochi mesi fa, che ripercorre i suoi quattro anni da Assessore alla Cultura. Il secondo filone è quello artistico, relativo al progetto Cittadella dell’Arte, nato con l’obiettivo della riqualificazione urbana del nostro isolato all’interno della periferia di Niguarda, attraverso interventi artistici. In quattro anni una cinquantina di artisti sono stati invitati ad intervenire, realizzando di tutto, dal Neon dei Vedovamazzei, alle statue di T-Yong fino agli ormai famosi quaranta murales che occupano tutta la via Gregorovius, fatti da altrettanti artisti, che hanno sostanzialmente trasformato in dipinti murali delle pratiche di archivio. Tutto questo nel 2020 si è completamente fermato. Quindi, facendo un esempio, se nel 2019 attraverso i nostri filoni culturali ho consentito a una trentina di operatori del mondo della cultura di lavorare, nel 2020 l’ho consentito solo a cinque operatori, ovvero solo agli allestitori della mostra. Questo dato è drammatico se analizzato in proporzione sulla città.
Ritieni che la situazione connessa alla pandemia abbia in qualche modo posto in dubbio il valore e l’importanza della cultura nella società e il suo impatto sulla qualità della vita?
Si, io credo che in Italia si stia facendo un grande errore di superficialità, dando per scontato che la cultura e l’intrattenimento siano qualcosa cui si può rinunciare o temporaneamente sospendere, dimenticandosi che tutti questi comparti sono delle professioni. Rinunciare temporaneamente significa che gli operatori della cultura non lavorano, quindi non soltanto gli artisti, ma tutta la filiera, andando a bloccare un comparto. Poi a monte evidentemente c’è un’altra questione: è un mio punto di vista molto personale, ma io sono convinto che le azioni dell’uomo sono figlie della sua cultura, quindi il modo in cui tu affronti l’emergenza è figlio della tua cultura. Prendere la cultura e metterla da parte perché c’è un’emergenza è un errore madornale, perché viene meno il presupposto che ti consente di affrontare quell’emergenza. Ho sempre sostenuto che in un contesto culturale forte una modalità come quella del lockdown non sia concepibile: lockdown vuol dire bloccare e il blocco è proprio il nemico della creatività e della risolutezza. Quindi questa situazione ci deve far riflettere come operatori del settore: la cultura deve ripensare se stessa. In questa dimensione di grande crisi ho la percezione che la crisi sia essa stessa dovuta al fatto che non c’è cultura, ma il fatto che non ci sia cultura è un po’ colpa anche della cultura stessa, probabilmente.
Milano e la Lombardia da anni rappresentano il cuore della scena culturale e creativa italiana. Come pensi che la pandemia impatterà sul ruolo culturale della regione e della città di Milano?
La Lombardia ha lo svantaggio di non avere il patrimonio culturale di alcune regioni italiane, come ad esempio la Toscana, la Campania o la Sicilia, il che però la porta a non avere la stessa staticità. La Lombardia si deve inventare sempre qualcosa di nuovo per rimanere in gara, ed è un tessuto molto coriaceo, si è visto anche dopo il primo lockdown, quando la regione è subito ripartita in quarta. Dal 2021 si tratterà di capire effettivamente con chi, come e con che risorse muoversi, ma anche con che desiderio: chi ha vissuto il lockdown a Milano come me, in una città che ha sempre vissuto di socialità, potrebbe decidere di spostarsi altrove per paura di nuove misure restrittive. Se buona parte del settore culturale, e soprattutto gli artisti, si delocalizza altrove, sarebbe un serio problema per Milano e l’economia culturale lombarda. Inoltre ho l’impressione che l’evento di massa, su cui Milano ha sempre basato la socialità, sia arrivato al capolinea: il Covid ha dato un colpo di grazia alla massificazione dei momenti sociali, e ciò potrebbe avere serie conseguenze per chi investiva in eventi culturali e sociali. Se questi soggetti decidessero di delocalizzare gli eventi altrove, sostituendo eventi di massa a eventi d’elite trasmessi poi in digitale ad un pubblico più ampio, sarebbe un cambio epocale per la nostra comunità.
La tecnologia ha giocato un ruolo fondamentale in questo periodo. Quali sono i rischi e le opportunità di questo strumento e come vedi l’integrazione dei canali digitali nel settore culturale?
Il digitale è uno strumento potentissimo, e in quanto tale è come un’arma: ci puoi “uccidere” qualcuno, puoi difenderti, puoi tenerla nel cassetto sapendo che ce l’hai, puoi sventolarla in giro per spaventare gli altri… È uno strumento che può essere utilizzato per fare del bene o del male, ma in questa situazione ci ha sicuramente aiutato. Dall’altro lato ho però anche l’impressione che il digitale sia diventato una sorta di grande alibi per non voler fronteggiare davvero questa situazione di emergenza: abbiamo Amazon, Netflix, la consegna a domicilio, la spesa online. Tutti questi strumenti sono stati utilissimi, ma ora bisogna stare attenti che non prendano il sopravvento. Sul mondo della cultura a me pare che il digitale non abbia aiutato quasi per niente. Quello che ho visto, ovvero tentativi sacrosanti di tenere vivi dei lumicini, non ha a mio avviso quasi funzionato, e questa cosa evidentemente deve interrogarci. Resta infatti un aspetto che per me è imprescindibile, ovvero il tema del luogo e dell’incontro. Un’istituzione culturale è un luogo di incontri, chi vive il mondo della cultura lo sa benissimo. Tu sai che se vai a una mostra che non ti è piaciuta, quasi sempre porti a casa un incontro che invece ti è piaciuto, che genera idee, genera progetti… Il digitale ha completamente tagliato questo aspetto. Io parlo per me, tutto quello che ho fatto in Cittadella dal punto di vista culturale è nato sempre da incontri con altre persone nell’ambito della cultura, che mi davano suggerimenti, idee, collaborazioni. Da quest’anno non ho tratto quasi nulla da questo punto di vista. La cosa positiva è che tutto sommato le persone appena hanno potuto uscire di casa lo hanno fatto subito, quindi il bisogno di incontrarsi, di vedersi ha prevalso. Paradossalmente la gente potrebbe avere una reazione uguale e contraria dopo questa esperienza, utilizzando il digitale di meno. Non credo, ma lo vedremo…
Questa situazione ti ha portato quindi a ripensare il tuo stile di vita pre Covid?
Assolutamente. La mia vita, come credo quella di tutti i milanesi, era improntata a sette-otto ore di ufficio poi la vita sociale, l’evento, la mostra, la presentazione del libro, il teatro, l’auditorium, la musica, le feste, perché Milano è sempre stata caratterizzata da questo. Ma tutto questo improvvisamente è sparito. Milano è una città che vive di socialità e le case dei milanesi non sono per lo più case adatte alla vita casalinga. Milano non è una città pensata per vivere in casa. Dopo questa esperienza anche io penso a un rapporto diverso prima di tutto con la natura, sento il bisogno di respirare o di stare in una situazione in cui se dovesse esserci un ulteriore lockdown, magari avrei un paesaggio migliore anche solo da contemplare… Ho sempre pensato che non avrei lasciato Milano facilmente, ma durante il 2020 ho iniziato a mettere in dubbio questa convinzione seriamente.
Ma se vogliamo vedere i lati positivi ritieni che ci siano delle opportunità che si sono aperte con questo scenario?
Sicuramente sì, perché a Milano avevamo una società in cui vi erano aspetti ridicoli che erano stati gonfiati a dismisura ed eretti a regola di vita, come il presenzialismo, quindi questa situazione ci farà tornare un po’ con i piedi per terra. Un altro aspetto interessante è che potranno divenire centrali temi che per anni sono stati posti in secondo piano nell’ambito culturale, quali ad esempio il lavoro. Negli ultimi anni la cultura si è occupata tantissimo di immigrazione e sostenibilità, mentre il lavoro, tema centrale negli anni ‘70, è stato completamente escluso. Ora il lavoro tornerà a essere inevitabilmente un tema al centro della questione culturale, perché non ce ne sarà per molti. Questo grande scossone, e le ripercussioni future, daranno una scossa agli artisti e sarà interessante osservare cosa produrranno. Una società colta è infatti una società che guarda all’artista perché l’artista “pre”-sente quello che succederà.
Come vedi il futuro della cultura e come credi che il tuo settore possa contribuire alla ripartenza culturale?
La cultura in Italia è sempre stata sostenuta dal settore pubblico. Nel 2021 lo Stato avrà ancora di più il ruolo di sostenere, perché è evidente che i privati che potranno supportare iniziative culturali saranno molti meno di prima: probabilmente molti brand non riusciranno più a sostenere iniziative in ambito culturale, e lo stesso vale per collezionisti privati e filantropi. Il settore pubblico ha quindi il dovere di sostituirsi a questi soggetti, sperando vi siano i mezzi per farlo, e facendo in modo che ciò non diventi assolutamente un condizionamento culturale, il rischio è infatti che venga un po’ meno la libertà di iniziativa, di accrescimento, di partecipazione. Non serve la cultura di Stato, ma serve lo Stato che sostiene l’iniziativa culturale. Una modalità interessante potrebbe essere quella in cui lo Stato cerca di sostenere delle iniziative private. Per quanto riguarda Cittadella, credo che dal 2021 dovremo uscire da quello che è il ristretto ambito dell’Archivio e essere ancora di più un luogo di intrattenimento culturale per la zona di Niguarda, uscendo dallo schema della singola mostra o dell’intervento artistico, aprendoci ad altre forme, che possono essere concerti, spettacoli, ma anche solo performance o momenti e occasioni di incontro e di confronto perché sicuramente da parte dei privati ci sarà molta più difficoltà a proporsi con delle iniziative. Io da parte mia ci proverò, vedremo cosa si riesce a fare, sempre se non partirò anch’io per qualche bosco, o qualche esilio ameno…
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