-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Spume bianche, grigie e porpora. I fatti di Beirut secondo Flavio Favelli
Attualità
Fra il 6 e il 9 agosto 1945, 75 anni fa, l’America lanciò sul Giappone la Little Boy e la Fat Man le due bombe atomiche risultate dal programma Progetto Manhattan, sicuramente in onore al famoso cocktail a base di whisky. In entrambe le azioni partecipò a supporto un aereo, con tanto di logo sul fianco, chiamato The Great Artiste. Gli americani, nella loro disarmante semplicità, ci vedono sempre lungo.
L’immagine delle esplosioni delle bombe atomiche occupano il campo dello spettacolo, del fascino, della bellezza. Nel 2012 alla fiera d’arte di Torino vidi una serie di foto in bianco e nero di una sequenza, nella stessa cornice, dello scoppio di una bomba H; chiesi il nome dell’autore, ma forse era anonima, una performance originale del fungo spuma bianco è artistica per sua natura.
Quando ero bambino, tutti i bambini erano simpatici e amici, soprattutto quelli lontani e un’estate d’agosto mia madre mi lesse Il gran sole di Hiroscima. Amavo quella copertina rossa con i grandi raggi gialli e la storia mi divenne così familiare che la famosa cupola scheletro dell’edificio rimasto in piedi divenne una delle immagini più intense al punto che tentai di rifarne una a metà fra questa e quella del mausoleo di Teodorico, sulla mia nuova casa, progetto poi abbandonato.
A Bologna, sui vari muri della città, doveva essere il 1996, apparvero dei fogli fotocopia in bianco e nero, col fungo atomico e qualche pesce tropicale con scritto Mururoa.
Il nome suadente e l’idea di un atollo della Polinesia-Gauguin, spostava tutta la faccenda su un non so che di artistico e attraente; del resto anche dopo le magnifiche esplosioni che facevano vedere in tv, quelle a medusa elegante, con anelli concentrici inebetenti e forme fluttuanti gelatinose, un po’ come in quelle lampade effetto lava, un po’ come certi fuochi d’artificio che si dissolvono come magie, rimaneva il bell’azzurro celeste blu del mare tropicale.
A fine maggio scorso il Crew Dragon di SpaceX è stato lanciato dal razzo Falcon 9, la capsula è poi tornata, ammarata il 2 agosto nel Golfo del Messico aiutata da paracaduti a righe bianchi e arancio che ricordano le vecchie pubblicità delle Merit (non si sa perchè, ma l’estetica americana contemporanea è sempre nuova e vecchia allo stesso tempo).
Il razzo parte dopo l’esplosione di una gran fumana bianca, corposa, nuove nuvole al rallentatore di una esplosione positiva. Il Falcon Heavy è invece il più potente razzo al mondo. Nel sito web di SpaceX c’è un mini video, un frame in movimento da video, una continua ripetizione dell’istante della partenza, a rilento, una partenza eterna, una ripetuta ripartenza, un avvio senza fine, come fosse una lunga eiaculazione interrotta, ma perenne, dove il fumo compatto e composto ribolle con fiocchi di panna montata: insuperabile performance dice il titolo vicino al diorama animato sfondo mare blu.
Ha un rosso scuro, da polvere Taranto e tinte vulcaniche, l’esplosione in Libano, il gran botto di Beirut, visto e ammirato da tutte le angolazioni, dall’inizio alla fine, come se fosse atteso da tempo, già antologia. L’esplosione, forse la madre di tutte le esplosioni, ancora più di quelle del 2001, per via della sua piena performance live, un perfetto sviluppo dalla terra al cielo, senza tanti intralci visivi, in tre atti con tempi attenti, quasi studiati. Con un’introduzione classica, la prima, adagio andante con infiorescenze dolcifilanti, lente spume bianche avorio a sbocciare prima del diavolo porpora – porpora quella fenicia, l’unica cosa che sappiamo di questa terra oltre all’albero fantasma e lo stile Byblos – un budello al sangue rappreso poi cremisi, che sparisce subito ingoiato da una candida torta mimosa, un gelato tartufo bianco presto velato, una gran sottana lattiginosa che ammanta tutto e d’un tratto sparisce, rivelandosi solo come un veloce sipario per presentare ancora il moloch di fumo più gonfio già scarlatto scuro.
La distanza più profonda che ha Beirut con l’Occidente, rispetto alle fioriture grigie di fumo e polvere e sbuffi delle Torri Gemelle di New York, ne permette una visione più libera, più distaccata, in fondo più godibile. Quello che chiamano Medio Oriente, anche se in realtà è il Vicino, è un luogo di eterni conflitti ed esplosioni troppo difficili e complicate per essere interessanti, con troppi attori, con troppe puntate senza esito, troppo lungo, con guerre di posizione che sfiancano partecipanti e spettatori.
Così il gran botto di Beirut, senza rivendicazioni, ancora scemo incidente, è forse alla fine un po’ rassicurante.
Per avere un’idea del paese conviene ricordare una banconota da 5mila Lire degli anni Novanta, bellissima, di raro equilibrio formale e cromatico, che ricorda una stessa emissione dello stesso periodo del Franco della Svizzera.