Categorie: Beni culturali

Carte false per i Marmi del Partenone: le prove di David Rudenstine

di - 2 Marzo 2020

In un testo pubblicato recentemente e intitolato Trofei per l’Impero, David Rudenstine, stimato professore di diritto costituzionale presso la Benjamin N. Cordozo School of Law dell’Università di Yeshiva, ha contestato la pretesa britannica di mantenere i Marmi del Partenone all’interno della Galleria Duveen al British Museum.

Secondo Rudenstine, il Parlamento Britannico non sarebbe stato in grado, nel 1816, di produrre documenti sufficientemente solidi per certificare l’acquisto regolamentare dei marmi, che furono portati al British Museum grazie a un controverso permesso concesso dalla Sublime Porta – cioè l’Impero Ottomano, che ai tempi governava la Grecia – al settimo Conte di Elgin, Thomas Bruce, il quale, però, non avrebbe potuto rimuovere tutte le statue ma «Solo quello che avrebbe scoperto in uno scavo specifico».

La presa di posizione di Rudenstine si basa sulla modifica di un documento chiave, che testimonia l’autorizzazione preventiva da parte dei funzionari ottomani di rimuovere i marmi dal Partenone. Rudenstine sostiene che i funzionari britannici abbiano agito illegalmente, falsificando le carte: «Il Parlamento ha commesso una frode. E quando hanno pubblicato il documento in inglese, il governo non è riuscito a fornire prove chiare a sostegno della loro richiesta», ha detto. «Se la mia tesi è veritiera, allora il British Museum deve restituire i marmi di Elgin».

Un portavoce del British Museum ha negato quanto sostenuto da Rudenstine: «Il British Museum è assolutamente certo che le sculture del Partenone sono state legalmente acquistate».

Per i Marmi del Partenone, documenti falsi e traduzioni poco precise: le prove di David Rudenstine

David Rudenstine, nominato per il Premio Pulitzer per il suo libro The Day the Presses Stopped: A History of the Pentagon Papers, conduce ricerche sui Marmi del Partenone da 25 anni. L’avvocato ha tenuto un ciclo di conferenze relative alle sue scoperte ed è certo che i ricercatori non siano riusciti a recuperare la versione turca del documento d’acquisto, che risulta essere assente anche dagli archivi ottomani, nonostante la cura impiegata dall’Impero di quel periodo. Il che rende la faccenda sospetta. Inoltre, Rudenstine non comprende il motivo per cui uno dei documenti sia stato scritto in italiano, una lingua che nessuno dei due Paesi in questione parlava fluentemente.

«Secondo i suoi termini, il documento italiano afferma che i funzionari di Atene avrebbero dovuto consentire agli agenti di Elgin di misurare, disegnare e realizzare stampi poiché nessun danno sarebbe stato fatto alle famose sculture greche», ha detto Rudenstine. «Pertanto, non solo non si dava il permesso di rimuovere le sculture dalle alte mura, ma vi si afferma anche che le attività di Elgin non avrebbero dovuto danneggiare le sculture».

Le opere di Fidia non solo non sarebbero state acquistate alla luce del sole ma sarebbero anche state danneggiate proprio dalle attività di Elgin. Uno studio scientifico pubblicato sulla rivista accademica Antiquity ha affermato che i primissimi anni in cui i marmi del Partenone furono esposti in Gran Bretagna causarono danni irreparabili. Gli esperti del King’s College di Londra stimano che, tra il 1801 e il 1872, i manufatti abbiano subito più danni di quanti ne avrebbero potuti subire nei successivi 120 anni. Se fossero rimasti ad Atene, sarebbero in condizioni certamente migliori, considerato che la causa più probabile di questo deterioramento pare siano essere stati i metodi di pulizia impiegati dal museo.

Decolonizzare i musei occidentali: giusto o sbagliato?

I leciti dubbi di David Rudenstine riguardanti la legalità delle carte stipulate dagli inglesi per ottenere i Marmi del Partenone sono sostenuti non solo dalla Grecia, che combatte da decenni per la restituzione delle sculture di Fidia, da quando ha ottenuto l’indipendenza nel 1832 e, soprattutto, dal 2009, anno in cui è stato aperto il Museo dell’Acropoli. Ma anche da larga parte dell’opinione pubblica, ormai sensibile verso i processi di colonialismo. Ormai è evidente il modo illecito in cui diverse collezioni d’arte occidentali siano state riunite, spesso in seguito a vere razzie perpetrate verso le ex colonie.

Persino Jeremy Corbyn, leader del partito laburista, ha promesso che si impegnerà a restituire i marmi del Partenone alla Grecia, se dovesse essere eletto primo ministro alle prossime lezioni del 2022. C’è chi, però, non crede che la restituzione sia scontata o necessaria. A far discutere sono le parole di Hartwig Fischer, direttore del British Museum, il quale durante un’intervista al quotidiano greco Ta Nea ha ribadito che Londra non restituirà alla Grecia i marmi. Per Fischer, «La rimozione dei marmi fu un atto creativo».

Parole che sono state considerate provocatorie e che hanno ricevuto una risposta tagliente da parte di George Vardas, segretario dell’Associazione Internazionale per la Riunificazione delle Sculture del Partenone. «Seriamente, cosa c’è di tanto creativo nella distruzione di un tempio e nella spoliazione dei simboli della storia antica di una nazione?», ha twittato Vardas. In un articolo per il giornale Neos Kosmos, Vardas scrive che le dichiarazioni di Fisher sono «La dimostrazione di un’arroganza che è ancora radicata in un atteggiamento mentale imperialista», che «Il British Museum fa semplicemente Photoshop alla storia» e che «Atene è la sede naturale dell’intera collezione di sculture del Partenone».

Per i greci non è corretto nemmeno che le sculture vengano chiamate “marmi di Elgin”, perché gli inglesi ne sono solo eredi (non legittimi) e non fanno che cancellare l’origine ateniese delle opere.

Il senso della Brexit per i Marmi del Partenone

Gran Bretagna ed Europa si preparano a negoziare il loro futuro rapporto commerciale post Brexit e, tra la varie bozze, è comparsa una clausola legata al mandato di negoziazione dell’Unione Europea, che fa riferimento alla «Restituzione degli oggetti culturali rimossi illegalmente nei propri paesi di origine».

A favore della postilla troviamo anche l’Italia che, tra gli altri beni portati via in maniera poco chiara dal suo territorio, come l’Atleta di Lisippo al Getty Museum, sta provando da anni a riappropriarsi dei rilievi marmorei di epoca romana trovati a Villa Muti e acquistati dal commerciante Jacob Hirsch nel 1954.

Purtroppo, però, non sarà la Brexit a risolvere la questione Elgin. Tutti riconosciamo il merito del British Museum di aver reso accessibile al grande pubblico la meraviglia dell’antica civiltà greca. D’altro canto, però, non si può negare come l’assenza dei marmi abbia mutilato il Partenone, creando un vuoto narrativo negli eventi mitologici e storici. E poi, se la tesi di Rudenstine dovesse dimostrarsi vera, verrebbe a cadere anche i moventi della divulgazione e della conservazione. Perché a quel punto sarebbe evidente la volontà di saccheggio.

Come disse un dotto greco originario di Giànnina, nell’Epiro, nel 1810: «Voi inglesi avete portato altrove le opere dei greci, dei nostri antenati. Abbiatene cura. I greci verranno di nuovo alla loro ricerca».

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