Svolta nel caso del Doriforo di Stabiae: il governo italiano è determinato a risolvere la vicenda. «Sono pronto a intraprendere un’iniziativa per riportare la scultura nel nostro Paese», ha detto a Repubblica il ministro della Cultura, Dario Franceschini, alludendo alla statua romana trafugata negli anni Settanta a Castellammare ed esposta al MIA – Minneapolis Institute of Minnesota dal 15 aprile 1986.
Recentemente il Comitato per gli Scavi di Stabia, fondato nel 1950, ha promosso una petizione pubblica, per chiedere al museo di restituire all’Italia la statua del Doriforo. Una lettera invita la direttrice del Museo, Katie Luber, a portare di persona il prezioso reperto nella sua legittima dimora, ovvero al Museo archeologico Libero D’Orsi a Castellammare di Stabia, nella Reggia di Quisisana, città metropolitana di Napoli.
La procura della Repubblica, presso il Tribunale di Torre Annunziata, ha inoltrato alle autorità statunitensi la richiesta di assistenza giudiziaria internazionale, per eseguire il decreto di confisca emesso il 19 gennaio scorso. La statua romana in marmo pentelico, copia di una nota statua bronzea di Policleto, è alta 196 cm e risalente al periodo compreso tra il 27 a. C. e il 68 d. C., che il MIA acquistò per 2,5 milioni di dollari. Ma da chi? E per quali vie?
Le indagini della procura hanno fatto luce su una sconvolgente serie di illeciti rispettivi alla statua e alla sua provenienza. Il MIA sostiene di aver acquistato il Doriforo di Stabiae dal mercante d’arte svizzero Elie Borowski. Egli aveva assicurato che la statua fosse stata recuperata dai fondali, a largo delle coste italiane, intorno agli anni ’30. Borowski affermava che l’opera sarebbe finita a privati fino al ’78, poi presentata al museo di Monaco in Germania. Ma i conti non tornano e i rilievi scientifici in atto dicono altro: la sentenza del Tribunale italiano dichiara che sulla statua sarebbero presenti tracce di terra, non incrostazioni marine. Un dettaglio che ha aperto un vero e proprio vaso di Pandora: la notizia è giunta anche sulle pagine del New York Times.
Tutto ruota intorno all’ambigua figura dell’antiquario ebreo Borowski, nato a Varsavia nel 1913 e morto in Israele nel 2003. A Basilea Borowski divenne uno degli esperti mondiali di antichità e nel ‘92 portò le sue opere a Gerusalemme, dove fondò il Bible Lands Museum, ancora in piedi, con pezzi collezionati in 45 anni.
Le indagini connettono le attività dell’antiquario con quelle di diversi commercianti d’arte compromessi. Tra loro spicca il nome di Robert Hetcht, antiquario americano con base a Parigi e sotto processo, in Italia, per traffici illeciti, dal 2005 fino alla sua morte, nel 2012. Dalle carte di Hecht emerge che Borowski era cliente di Giacomo Medici, condannato per gli stessi reati nel 2004. Tra i documenti dell’americano è stato rinvenuto perfino un organigramma che associa mercanti pregiudicati, furti e opere d’arte di inestimabile valore.
Che il Doriforo di Stabiae – definito a ragione l’Emigrato di Pietra, in un servizio d’inchiesta del Tg2 Dossier del 1980 – sia preda ghiotta e ambita, lo evidenzia bene l’entusiasmo dell’allora curatore capo del MIA, Micheal Conforti: al tempo dell’acquisto aveva dichiarato che l’opera avrebbe migliorato di dieci volte la collezione di arte antica del museo.
Il procuratore Fragliasso e i carabinieri del Nucleo tutela hanno scoperto che i vertici del MIA sapevano che la statua era stata presa clandestinamente. Lo provano alcuni documenti agli atti dell’inchiesta. Tre archeologi del museo ritenevano che la statua non venisse dal mare; ne scrivono in una lettera come di un reperto che scotta.
Una giusta intuizione, poiché il Doriforo non viene affatto dai flutti: lasciò illecitamente Castellammare nel 1975-76 per Basilea, da lì arrivò a New York per tornare a Monaco di Baviera, dove fu esposto alla Gliptoteca nel corso di una raccolta fondi da 3 miliardi di lire. La raccolta non andò a buon fine perché la stampa sollevò il caso della provenienza illecita dell’opera e nel 1984 la magistratura italiana ne ordinò il sequestro. Il Doriforo però sparì dalla Germania. Ricomparve due anni dopo a Minneapolis, dove il direttore del MIA, Alan Shestack, spiegò di aver acquistato la statua da Borowski con il contributo di donatori privati.
Non c’è che dire: l’antiquario di Varsavia era un vero mago del commercio illegale, e non solo di tesori italiani. Nel 2012 le autorità della Turchia richiesero ad alcuni musei americani, tra i quali anche il J. Getty Museum, la restituzione di decine di reperti, tutti trafugati e arrivati negli USA illegalmente, sotto le losche manovre borowskiane.
Già nel ’92 studiosi e colleghi giudicarono le azioni di Borowski come un incentivo a furti e scavi clandestini in numerosi siti archeologici nel mondo.
Ora si attende la risposta delle autorità giudiziarie americane: il Doriforo deve tornare in Italia. Non si tratta certo del primo caso di rimpatrio forzato di opere dagli USA. Il New York Times riferisce che il MIA in propria difesa dichiara spudoratamente di non essere stato ufficialmente informato della decisione del tribunale italiano e di aver «Sempre condotto ricerche sulle acquisizioni, anche chiedendo feedback a studiosi esterni». Il Doriforo di Stabiae, eroico prigioniero, è ancora in mostra al Minneapolis Institute of Art, ma presto, si spera, tornerà a casa.
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