Borderlinedisorder era il titolo che il Padiglione Israeliano aveva scelto, l’anno scorso, per la propria installazione a Next (la Biennale di Architettura di Venezia), e che focalizzava l’attenzione sulla perenne condizione di guerra e di ambigua definizione territoriale dello stato israeliano. Il tema -ripreso da Stefano Boeri per il suo work in progress con Multiplicity– è anche all’origine di Borderdevices, riflessione sul significato di frontiera, barriera e confine che Boeri propone, alla Biennale di quest’anno, all’interno di Utopia Station.
Già con Next, infatti, si percepivano le prime avvisaglie di un rinnovato interesse del mondo occidentale per il vicino Oriente. Così, se Beirut e il Cairo si confermano centri propulsori di una realtà dominata da un pluralismo etnico e culturale di grande ricchezza ma anche di difficile definizione, ancora più arduo sembra il tentativo di verificare i concetti di limite, appartenenza e confine in una situazione territoriale che subisce tuttora le imposizioni europee conseguenti alla caduta dell’Impero Ottomano.
Il Padiglione Palestinese dei Giardini diventa, in questo contesto, non solo il necessario contrappunto di quello israeliano- che non a caso quest’anno ripropone, con l’artista Rovner, la diaspora infinita del popolo ebraico-, ma anche una riflessione sul concetto stesso d’identità.
Nello spazio interstiziale tra i vari padiglioni nazionali sono disseminati 10 grandi passaporti, allestiti da Sandi Hilal e Alessandro Petti. Pur rappresentando il concetto stesso di identità ed appartenendo, tutti, a cittadini palestinesi, la vera nazionalità non appare mai, se non come strumento di disparità e disuguaglianza.
La loro presenza alla Biennale diventa allusiva e simbolica non solo di una tragedia, ma anche di un’assenza. Non tanto, ovviamente, di un simbolico padiglione, quanto di un’appartenenza e di una memoria perseguitate ed oltraggiate, in un territorio in cui eserciti e confini impediscono il ritorno e la coesione di questo popolo che– come sostiene Raba Salih nel numero di Archis dedicato al progetto veneziano- “si ritrova vittima della vittima per eccellenza, di quell’olocausto che è un prodotto della storia europea, e non palestinese”.
Con il titolo programmatico di Stateless Nation, il lavoro di Hilal e Petti si configura come “ progetto di ricerca sull’idea di cittadinanza nata durante la RivoluzioneFrancese” , in un territorio, la Palestina, in cui vengono messi in costante discussione quegli stessi “concetti fondamentali di uguaglianza e libertà, orgogliosamente rappresentati dalla civiltà occidentale”.
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www.statelessnation.org
http://www.wdw.nl/ENG/text/publicat/efrat_fr.htm
www.passia.org
www.palestinemonitor.org
www.borderdevices.org
elena franzoia
mostra visitata il 13 giugno 2003
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