Una mostra interessante, importante e discutibile. Dunque perfettamente in linea con l’intera 50° Biennale d’Arte. Il problema di La struttura della crisi è la qualità dell’idea di partenza, o meglio delle potenzialità emerse dall’idea di partenza. Inizialmente questo doveva essere il settore dove si sarebbe guardato all’America Latina, confermando quindi questa strana struttura (vedi anche i settori sui Paesi Arabi, Orientali etc.) in cui nella mostra a inviti si propongono inquadramenti geografici che normalmente potrebbero essere dati dai padiglioni nazionali. Ma il bello è che queste zone sono alquanto ampie –e questo giustifica il progetto-, e che i temi possono fuoriuscire dal tracciato.
Così dall’associazione America Latina, crisi economica e politica, espressione in arte della società in crisi, nasce un tema che travalica i confini, coinvolge tanti paesi in via di sviluppo e porta a discutere del futuro.
Parlare di favelas è ormai un comune modo di rappresentare la crisi della urbanità contemporanea, di mostrarne il risvolto, se non addirittura lo spettro di un probabile e grottesco futuro. Ma il capire le potenzialità di questi nascenti fenomeni di socializzazione e cooperazione in situazioni economicamente alternative, è un notevole passo avanti. La società potrebbe trarne nuove, anche se non entusiasmanti, speranze post-ecologiche.
Questi aspetti costituiscono l’importante scheletro analitico ed informativo della mostra. E fin qui siamo nell’America Latina, anche se con un tema d’interesse mondiale. Però la mostra si spinge oltre: la crisi, e l’arte che la manifesta, non sono solo questo. La crisi è un’accelerazione di alcune componenti temporali incontrollabili, fino a superare i tempi delle soggettività. Il risultato è la necessità di accettare quanto succede globalmente, aldilà delle proprie necessità o desideri.
Ed a questo punto il tema trascende dalla localizzazione, dal ceto, dalla cultura. Bella e sintetica senz’altro l’opera di Yona Friedman, veterano architetto francese che nulla avrebbe a che vedere con l’America Latina, se non fosse che le sue riflessioni sul futuro del mondo convergono verso le medesime conclusioni di questa mostra. Con il Castello del povero, parete decorata con imballaggi in polistirolo, che ricorda una futuristica città a volo d’uccello, ed il saggio a catalogo Argomenti per un mondo povero, Yona Friedman non solo ha firmato la più interessante opera di questa biennale detta “degli architetti”, ma ha anche rilanciato la palla oltre l’estetica. Ma ad oggi non pare sia stata notata.
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