Allora, come hai lavorato con Bonami?
La mia proposta a Bonami era la continuazione di quello che già faccio da tempo, ma possiede anche uno specifico che si lega alle condizioni fisiche di questi spazi.
Tra qualche decennio due terzi delle persone vivranno nelle città. La tesi della tua mostra è l’urgenza che queste città devono sostenere…
Si, nelle nuove città asiatiche credo che ciò si veda meglio che altrove, anche se il discorso vale per molti altri luoghi nel mondo, specie le città in cui vi sono ampie comunità d’immigrati come le nelle grandi capitali. Anche gli architetti lo hanno capito e stanno vivendo dentro una situazione fatta di interessanti contraddizioni e riciclaggi di idee.
La tua mostra è puntata sull’arte asiatica. Può valere per il mondo intero però…
Credo che valga nel suo contesto ma anche come apertura al dialogo. Il progetto non rappresenta l’Asia ma è la possibilità di instaurare un dialogo fra parti del mondo differenti. Credo che ci sia una incomprensione sul concetto di arte globale.
Come giudicano la globalizzazione gli artisti asiatici
E’ difficile dirlo, la situazione è complessa, ma in generale molti artisti condividono la critica ai comuni aspetti negativi della globalizzazione, come il super potere delle società di consumo, la dominazione del potere capitalistico e la distruzione
Sta cambiando l’arte asiatica?
Si, molto velocemente. Come, è più difficile dirlo. Su migliaia di artisti e mostre il discorso si fa complicato. Ad esempio: il mercato è il più grande promoter, ma molti artisti sono attivisti che traggono la loro energia non dalle istituzioni o dal sistema dell’arte ma dalla realtà sociale.
E il pubblico?
Sai, per l’arte lo spettatore più frequente è quello della classe media, che da noi sta crescendo molto velocemente grazie ai progressi economici. Molti artisti lavorano nella realtà sociale, il che ha creato un pubblico indiretto ed aumentato quello diretto.
Qual è il rapporto tra artisti e istituzioni?
Credo che in molti paesi l’arte contemporanea sia sperimentale, mentre la maggior parte delle istituzioni non lo sono molto. Ma la vicinanza tra artisti e istituzioni diviene sempre più intensa. Lo dimostrano le molte Biennali asiatiche e la costruzione continua di musei. Ma la questione importante riguarda il rapporto tra le istituzioni e la critica.
Ci sono differenze tra chi vive in grandi città e chi invece abita in piccole città?
La maggior parte degli artisti vivono nelle metropoli, ma alcuni stanno nelle cittadine. Le vere differenze però passano attraverso le individualità anche perché ormai è molto facile avere scambi tra le due realtà. Per alcuni vivere in luoghi piccoli significa avvertire la necessità o il desiderio di andare a vivere nei centri più grandi. In molti paesi asiatici, le piccole città hanno voluto imitare le sorelle maggiori. Una situazione molto interessante, ma difficile da generalizzare.
Penso che i linguaggi dell’arte divengano sempre meno precisi e che proliferino in modo indisciplinato. Quindi abbiamo pittura, installazioni, video, net art, performance. Sono sempre più internazionali ma sono anche sempre più locali perché divengono parte della vita locale.
E’ il rapporto con le tradizioni?
E’ difficile da dire perché la tradizione non esiste come una cosa, è qualcosa in costante movimento, evoluzione, cambiamento o reinvenzione. L’idea di avere delle tradizioni con cui confrontarsi è importante per alcuni artisti perché offre loro l’idea di avere a che fare con una sorta di realtà, come risorsa più che come un limite. La tradizione è una sorta di differenza con cui si può parlare tornando indietro nel passato.
nicola angerame
[exibart]
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