Sulle scelte operate dal presidente Croff e dalle due curatrici spagnole si potrebbero scrivere fiumi d’inchiostro. Per alcuni aspetti prevale però un ovattato consenso: Biennale confortevole, complice il clima (che durante l’inaugurazione non è stato afoso), con servizi al pubblico e agli addetti ai lavori che funzionano e un numero di artisti che non esonda. E tuttavia… Una rassegna come quella veneziana è soprattutto l’estrinsecazione di un’inevitabile “politica” culturale. Catalogo alla mano, abbiamo studiato la distribuzione delle courtesy, ovvero delle provenienze delle opere da collezioni, musei e gallerie private. Ed è nata una mappa talora inaspettata.
Il primo dato, lampante, è lo strapotere di New York. Il secondo dato, più interessante, è il rapporto fra numero di artisti e numero di gallerie. Premettendo che un discreto numero di lavori reca soltanto la courtesy dell’artista -il fenomeno dell’artista-manager è quantomai in espansione-, e che di converso alcuni sono patrocinati da una pletora di gallerie contemporaneamente (si legga Santiago Sierra), sorprende il rapporto fra un centinaio di artisti e poco più di settanta gallerie. La maggioranza proviene dagli States, New York in primis (da Alexander and Bonin fino a Tony Shafrazi, passando per l’insuperabile Marian Goodman), ma anche Santa Monica (Patrick Painter) e Chicago (Rhona Hoffman).
La capitale britannica rinsalda la sua preponderanza europea. Ritroviamo alcune gallerie con sedi anche a Nyc (Gagosian, Marlborough), altre London-based (Anthony Reynolds, Faggionato, Frith Street, Lisson, Stephen Friedman, Timothy Taylor, White Cube), altre ancora con un’internazionalità più europea (Hauser & Wirth, Sprüth Magers Lee). Sfigurano invece luoghi come Berlino (Klosterfelde, Thomas Schulte e EINGEN + ART, che ha però la prima sede a Lipsia), superata in area germanofona da Vienna (Martin Janda, nächst St. Stephan, Mario Mauroner e l’infaticabile Thyssen-Bornemisza). Parigi poi non sfigura affatto, piazzandosi appena dopo Londra con nomi noti quali Lelong, Crousel, Perrotin, Xippas e l’immancabile sede francese di Goodman.
Quanto alla questione globalizzazione, il fenomeno è risibile. A meno che non s’intenda con ciò la proliferazione delle sedi di Larry Gagosian. Le varianti sono ben poche: gli artisti del cosiddetto “Sud del mondo” si affidano a gallerie “occidentali” (per esempio, Allora & Calzadilla vanno da Lisson), oppure sono costretti all’autoproduzione. Le eccezioni, almeno a Venezia, sono rare: lo espacio Contexto guatemalteco ha sostenuto la premiata Galindo, poi c’è la Townhouse del Cairo e Fortes Vilaça con l’accoppiata Damasceno e Neuenschwander. Anche le aree in pieno sviluppo si palesano in maniera ridotta, poiché non emerge alcuna galleria cinese, mentre Mosca è presente con Guelman e XL. L’Estremo Oriente scompare nell’unica partecipazione da Tokyo della galleria Mizuma, col vietnamita Nguyen-Hatsushiba.
E l’Italia? A parte Bruna Esposito col Museolaboratorio di Città Sant’Angelo e l’Associazione
Per tirare le somme occorre però toccare anche alcuni tasti dolenti. Mai come in quest’occasione, ci pare, sono fioriti i pezzi appartenenti a collezioni private. Ma non è tutto, perché spesso si tratta di lavori al limite del guardabile, Tapiès su tutti. Sorge allora il dubbio in merito ad alcuni aspetti della pratica curatoriale delle spagnole, e soprattutto di María de Corral. Basti osservare come la galleria che ha portato più artisti, cioè Marian Goodman (Ahtila, Tacita Dean, Graham, Kentridge e un Orozco non certo al massimo della forma), trovi spazio proprio e solo al Padiglione Italia, per di più con diverse sale dedicate ai suoi pupilli. Si sa che a pensar male si fa peccato, ma ci si prende. E allora diamo uno sguardo alla penisola iberica, che non si può dire fiorisca di gallerie internazionali. Dal Portogallo troviamo Cristina Guerra e Filomena Soares, dalla capitale spagnola Distrito Cu4tro, la proteiforme Marlborough e Soledad Lorenzo (con qualche Tapiès e Uslé), infine da Barcellona Joan Prats. Ebbene, sono tutte frutto della scelta di María de Corral. La sua collega all’Arsenale si è limitata alle madrilene Helga de Alvear (col solito Sierra) e Pepe Cobo. Chiudiamo in bellezza. Notando che il vetusto (e, unico caso in tutta la Biennale, malamente allestito) pezzo di Bruce Nauman proviene dalla Fondazione “la Caixa”. La cui collezione è stata curata -guarda un po’- da de Corral per ben dieci anni, dal 1981 al 1991…
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no, mi fai un riassunto?
hai capito meg?
qualche riflessione;
innanzitutto la cosidetta internazionalità passa in realtà attraverso i nodi privilegiati che già si conoscevano: direttori di musei, grandi gallerie,grandi capitali , new york eccetera. Si noti, per prendere un esempio a caso, la situazione italiana dove per ora
la maggiore rappresentatività ce l'ha il solito asse tra Torino (Una certa Torino) e
Milano (Una certa Milano), a dispetto della notevole crescita di Napoli e Roma, per non parlare di tutto il resto della penisola.
Volendo immettere un filo di speranza
vorrei comunque ricordare il recente caso di Leipzig e di una scuola artistica in controtendenza che ha "sfondato" e dopo anni può dimostrare il proprio valore. Naturalmente parliamo della Germania ,paese civile rispetto al nostro e dove i musei non sono in mano alla stessa consorteria (e dove anche gli outsiders possono fruire di spazi espositivi adeguati!)
Tornando alla confermata esistenza dei
grandi snodi, la cosa ovviamente non sorprende ma mi pare che sempre più
trapelino all'interno del sistema dell'arte
e dei suoi frequentatori più disincantati perplessità di natura non moralistica su questo stato di cose. Perplessità sempre circolate sottovoce da anni ma in crescita esponenziale negli ultimi tempi, grazie anche ad un sistema informativo più vario meno centralizzato.
Mi spiego meglio: non si tratta di impersonare le anime belle di fronte al "sistema" ingiusto e oppressivo , dato che tutti noi siamo impengolati se non con il "sistema" con qualche altro "sistemino",
ma si tratta del fatto che l' essere alla periferia delle pastette non ci toglie
le facoltà intelettive del giudizio e della critica sopratutto dopo che ormai già secoli fa si era appurato che il Re è nudo.
E sopratutto oggi che tutti abbiamo fatto le scuole dell'obbligo e possediamo la possibilità di studiare, vedere, e
informarci. Basta ad esempio aprire un catalogo e scorrere l'elenco dei courtesy, come ha ben fatto Giacomelli, per capire molte cose.
Si direbbe , anzi diciamolo apertamente,
che la fintamente cosmopolita internazionalità rappresenti,
senza i dovuti anticorpi e forte della sua
semplice capacità di circolazione, un passo indietro rispetto all'indipendenza intelettuale degli addetti al settore che si trovano troppo spesso a vidimare decisioni prese in qualche alto loco, anche se a chiacchere amano nascondersi dietro qualche teoria multiculturalista - rizomatico-orizzontale.
Ora il problema vero è che i snodi di potere non hanno più letteralmente possibilità di essere rappresentativi del nostro mondo iperaffollato; purtroppo non è questione solo di persone,culturalmente non hanno
proprio più giustificazione e basti a dimostrare questo l'aleatorietà e l'arbitrarietà che governano le scelte dei curatori, anche i più "leggendari", delle grandi mostre inevitabilmente partigiane
e monche. Che fare? Non si tratta certo di chiudere le frontiere e di promuovere rassegne nazionali con rappresentanze
regionali.... Però bisogna anche cominciare
a tirare qualche conclusione pratica!
allora: il museo di Arte Contemporanea del Castello di Rivoli é un esempio corretto o unilaterale di rappresentatività della nuova arte italiana? Ida Giannelli, che l'ha diretto per anni è quindi la persona più adatta per selezionare gli artisti italiani per la prossima Biennale di Venezia? se c'è altra arte in italia oltre quella passata per un paio di gallerie di Milano e il Castello di Rivoli la risposta non può essere che NO, con tutto il rispetto per la signora Giannelli.
Il successo dell'arte inglese nel mondo stà anche nella varietà di scelte e nei veloci turn over operati da Saatchi & Co, che sarà uno speculatore ma almeno fa girare la ruota mentre torino ci fà solo girare le palle!
Chiara, secondo me sei stata chiarissima
ben detto.
e ho anche la sensazione che sei bona.
OROZCO. si continua a scrivere che non era al massimo della forma. Dissento. Anche per l'impostazione della Corral il suo lavoro è ben azzeccato. Mi pare che tutto indichi un momento propizio per un certo tipo d'astrazione. Orozco lo aveva capito 10 anni fa e adesso, in un padiglione italia con un'impostazione storicista, ricorda beffardamente chi fa(ceva) avanguardia. Chi continua a ripetere "fuori forma" è messo alla berlina: o non ne capisce o vuole farsi figo nel criticare un nome grosso (sempre un grande trend).
Se si vuole far critica, ma seria, alle 2 spagnole, si dica qualcosa di Maider López o Pilar Albarracín. Parlare così sguaiatamente di Orozco sputtana.