La Biennale di Venezia è senza dubbio, come e più di altri eventi analoghi, un utile termometro per misurare il grado di accettazione, da parte del sistema dell’arte, della sperimentazione con i nuovi media. Forse non dovrebbe essere così, ma se l’inclusione di lavori di questo tipo nella prestigiosa Whitney Biennal, o nella programmazione di qualche dinamico museo americano, è segno solo del loro essere (o voler essere) all’avanguardia, la loro presenza a Venezia indica che lavori di questo tipo non sono più solo stranezze da centro sperimentale. Che qualche gallerista comincia a ospitarle, e qualche curatore ad inserirle in progetti che non includano necessariamente nel titolo parole dalla dubbia traducibilità e dall’indiscutibile sapore informatico.
In realtà, se la moda del multimediale dilaga ormai nelle videoinstallazioni, sono ben pochi i progetti che propongono un uso maturo delle nuove tecnologie, ma è la loro collocazione a far ben sperare. Antoni Muntadas colonizza l’intero padiglione spagnolo con il suo progetto On Translation, che dal 1995 indaga la questione della codifica e della decodifica dei linguaggi attraverso una lunga serie di progetti e istallazioni che utilizzano, di volta in volta, media diversi. Una serie all’interno della quale On Translation. The Internet Project ha segnato un punto fermo. Attraverso un evidente omaggio, nella sua austerità estetica come nelle dinamiche del processo attivato, ai progetti in rete degli anni Ottanta, The Internet Project dimostra il disturbo che la traduzione, e la prevalenza di un inglese globalizzato e corrotto, introducono nella trasmissione dei messaggi in rete.
Il sito archivia infatti le trasformazioni di un messaggio che passa attraverso una spirale di traduzioni, perdendo man mano il suo senso originario e acquistandone continuamente di nuovi. Nell’allestimento del padiglione, che predilige chiaramente l’ultima fase del progetto (On Translation: i giardini), il progetto internet risulta un po’ sacrificato, ma continua a costituire uno dei momenti più felici del lavoro di Muntadas.
Al palazzo delle Prigioni, che da qualche anno ospita le proposte del Taipei Fine Arts Museum of Taiwan, scopriamo invece De-strike, dell’artista taiwanese Hsin Eva Lin. Il lavoro prende le mosse da una performance messa in atto dall’artista, che attraverso uno sciopero di quasi quattro mesi ha riflettuto sugli aspetti perversi dell’economia dell’arte, rivendicando un valore per il suo lavoro. L’installazione invita il pubblico ad aderire, in maniera attiva o passiva, allo sciopero dell’arte, mentre dei computer connessi in rete svolgono la duplice funzione di monitorare, attraverso delle webcam, lo stato dello sciopero e di fornire a chiunque voglia aderire il materiale di propaganda necessario. Il progetto si inserisce molto bene in una mostra di ottimo livello, curata da Chia Chi Jason Wang e dedicata alla natura spettrale e intangibile della libertà.
Se il padiglione belga, con le immagini manipolate e i croma key digitali di Honore d’0 che si perdono in un groviglio di cavi e di schermi, ci travolge con una installazione volutamente eccessiva e destabilizzante, è dall’altra parte del mondo che ci arriva lo sgambetto definitivo.
L’installazione degli et al. , proposta dal padiglione neozelandese, indaga le dinamiche del controllo della mente attraverso cinque “unità autonome di purificazione” (UAP): delle macchine mobili che impongono allo spettatore un movimento nello spazio mentre lo sommergono con un flusso random – ma controllabile via internet dai misteriosi autori – di testi fondamentalisti. Dimostrando che l’assolutezza dell’oracolo si concilia benissimo con la relatività – del linguaggio, della libertà, dell’immagine – che di solito attribuiamo ai media digitali.
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De-strike
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domenico quaranta
mostra visitata il 13 giugno 2005
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