Solo Buttiglione, Sgarbi, Zecchi e pochi altri si sono potuti scandalizzare per le opere in mostra alla Biennale di Venezia. Lo hanno fatto secondo il nuovo stile neo-tradizionalista: cioè limitandosi a dire che queste cose si sono già viste, che il nuovo per il nuovo non stupisce più nessuno, e che invece sono altri i veri artisti che fanno, al di fuori della società dello spettacolo, reale sperimentazione. Sarebbe stato, invece, più interessante osservare una coincidenza. Sul numero del 30 maggio del settimanale New Yorker è apparso a un articoletto dal titolo: Girl Behaving Badly. L’argomento? Le Guerrilla Girls, proprio di quel gruppo, attivo dal 1985, i cui manifesti introducono lo spettatore alla mostra delle Corderie, curata da Rosa Martinez. Pare che le Girls, oggi artiste di successo, dopo alcune scissioni, siano in causa tra loro per ragioni di copyright. E poiché nessuna di loro è conosciuta con la sua identità anagrafica, ma con un nome di battaglia preso in prestito da un personaggio femminile famoso, avviene che Frida Kalho e Kathe Kollowitz se la prendano con Geltrude Stein o Meret Oppenheim. E, poiché col passare del tempo, tra le Guerrilla Girls si sono duplicati alcuni nomi, accade che una stessa Zora Neale Hurtson sia convocata sia sul banco della difesa che dell’accusa.
Come sempre la vita è più fantasiosa dell’arte la quale sembra sempre più volatilizzarsi a quello stato gassoso su cui ha recentemente scritto, con acume e ottime argomentazioni, Yves Michaud (L’art à l’état gazeux, Hachette Litteratures, Paris 2004). Questo stato evanescente piuttosto che fare male alla ricerca sembra, invece, estremamente positivo, anche perché non privo di importanti aperture transdisciplinari.
A cominciare dal video della sempre più brava Pipilotti Rist proiettato sulle volte della chiesa di San Stae: recupera la virtualità dei grandi cicli di affreschi e confuta tutte le sciocchezze che oggi si dicono contro la società delle immagini, mostrando che simulazione poetica e ipertesto sono state da sempre componenti fondamentali dello spazio architettonico.
Vi è poi Kiki Smith che alla Querini Stampalia combina arte e architettura per dar forma allo spazio interiore, ripreso quasi attraverso un telescopio psicologico, secondo una tradizione cominciata da Jung nella casa di Bollingen, da Wittgenstein nella residenza sulla Kundmangasse a Vienna, da Warburg alla biblioteca KBW di Amburgo. Alle Corderie le tre opere di Regina Josè Galindo sono un’unica installazione dove si combinano lo spazio del corpo, immagini di itinerari urbani e la realtà di una camera in cui non ci è dato entrare ma di cui immaginiamo la funzione attraverso gli altoparlanti che ne restituiscono i suoni: una stratificazione su più media, anche virtuali, dello spazio esistenziale, del corpo e dello scontro che ci sembra molto più efficace del sia pur interessante ma ovattato cyberplatonico mondo di Mariko Mori, sempre alle Corderie, dove le nostre energie si fondono per via digitale per disegnare un comune sentire.
In questa Biennale molte, troppe, cose si sono già viste, ma più che scandalizzarci –perché usare ancora questa categoria?- davanti all’incuriosente lampadario di tampax della Joana Vasconcelos, credo che ci si debba chiedere se lo spazio sempre più gassoso e evanescente dell’arte, ben rappresentato dalla scultura di Mona Hatoum che insieme crea e disfa le forme di un giardino zen, non sia molto più interessante di quanto vogliamo ammettere.
luigi prestinenza puglisi
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