Invitano ad abbandonare “la resistenza all’idea del piacere nell’arte contemporanea”, le ultime parole della De Corral in catalogo –dopodiché partono le immagini–, e a noi non resta che dichiararci pronti a sottoscrivere. Anche perché il fatidico “ti è piaciuta?” che fa capolino dopo ogni opening è faccenda –come noto– tremendamente seria, così seria da essere generalmente considerata tutt’altro che chic. E allora vuotiamo il sacco subito, e diciamo che si è trattato, per noi che abbiamo passato più di un pomeriggio –taccuino alla mano– tra Arsenale e Giardini, di due mostre in qualche modo complementari: nel merito, rispettivamente, di una buona mostra ma senza lampi (Sempre un po’ più lontano) e di una manciata di lampi però senza la mostra (L’esperienza dell’arte). Più chiari di così? Del resto non erano forse due, le proposte internazionali che ci aspettavamo da questa Biennale a due? Quel che non convince affatto, semmai, è una dissociazione esibita come storico-generazionale –da una parte ci troveremmo “dagli anni ’70 in poi” e dall’altra, invece, in una sorta di altrettanto nebuloso “presente direzione futuro”–, soluzione tautologica e che suona alquanto sciroppata. In fondo perché starlo a sottolineare, il fatto che videomaker nemmeno trentenni debbano trovare posto accanto a Bruce Nauman e Jenny Holzer?
E in quell’“attualità” che spetterebbe viceversa all’Arsenale, perché far apparire sorprendente la presenza di una novantacinquenne Louise Bougeois? Tanto valeva assestarsi sull’offerta curatoriale di un punto di vista più serrato, per non dire tematico, e lasciare all’opera d’arte –che di un titolo o di un’idea finisce sempre per essere specchio e pozzo– la possibilità di incamminarsi su e giù per i decenni.
Per il resto, l’impressione generale è che ogni cosa si trovi (dannatamente) al suo posto. Tutt’altro che come avviene tra separati in casa, insomma. Un esempio? Nonostante il gran numero di video sia comune a entrambe le mostre, a risultare pieno zeppo di sedie, panchine e poltroncine –qua e là ci si imbatte in veri e propri cinemini– è proprio l’assai intricato Padiglione Italia. Al contrario, la sontuosa direttrice architettonica costituita da Corderie e Gaggiandre si visita senza quasi mai sedersi, di fatto passeggiando dall’inizio alla fine –e meno male– come lungo un corso cittadino. Certo, messa così la faccenda balza alla mente il sospetto di rigide consegne site specific legate all’irriducibile differenza dei due grandi spazi espositivi (della serie “questo lo fai tu qui, questo io lì”). Tuttavia –questo bisogna pur riconoscerlo– la sensazione della saldatura in una sola grande mostra resa bicefala per ragioni di cassetta, di fatto, non regge. Chapeau, allora, al cospetto di un allestimento quasi ineccepibile.
Ma torniamo al “piacere”, e proviamo a suggerire l’ipotesi di un micro-itinerario emozionale. Non male, anzitutto, che l’atmosfera fortemente museale dell’ingresso del Padiglione Italia, dove sfilano uno dopo l’altro, in posa da maestri, Thomas Shütte, Francis Bacon (autentico leone della foresta, anche adesso), Philip Guston, Marlene Dumas, Antoni Tàpies, venga turbata da un’idea di segno contrario, da una sorta di sommovimento architettonico (installativo ma anche acustico) orchestrato dagli interventi, in sequenza, di Monica Bonvicini (lo scheletro di un trapano sospeso al soffitto che, acceso, diventa una sorta di kalashnikov che emette un suono da aspirapolvere), di una giovanissima Maider Lòpez (un baluginante non-pavimento) e Rachel Whitehead (il monumentale calco di un vano scala). Il tutto –ebbene sì, è proprio l’architettura il silenzioso fil rouge de L’esperienza dell’arte– fino al riassunto visivo offerto dalla paradossale sedimentazione pulsante, in Jpeg, delle immagini di Thomas Ruff.
Ci è piaciuto eccome l’altro leone William Kentridge, protagonista di un intervento indimenticabile per intensità, poesia, potenza, in cui ci si siede in terra –spetta a lui, non a caso, la sola sala sopraelevata– ad ammirare tazzine, formiche e caffettiere volanti che prendono a disegnare svelte costellazioni del pensiero e della memoria. E ci è piaciuto più d’un video (fin troppo) selezionato: l’introspezione senza sconti di William Doherty; la mise en scène tautologica di Bruce Nauman, che parlando del potere finisce per parlare del linguaggio; l’indagine sul mediascape della giovane Candice Breitz, dura e frizzante, che convoca i divi del cinema vincendo il duello “hollywoodiano” col nostro prorompente Francesco Vezzoli. Piccola nota polemica en passant: ben venga il Padiglione Italiano, ma a quando una raccolta di firme contro la sciatteria delle traduzioni nei sottotitoli, dove la nostra lingua viene puntualmente sfigurata (uno su tutti il lavoro di Vasco Araújo, dove i “che” diventano “que”, gli accenti latitano, e via oltraggiando)?
Passiamo all’Arsenale. Qui il piacere ci conduce dove si parla con una certa verve di donne e di religione, ovvero un po’ ovunque. Con più soddisfazione, però, di fronte al video abbacinante di Runa Islam (un applauso al bel titolo, Be the First To See What You See As You See It; e dire che potevano pure consultarla, le due curatrici, per un consiglio in proposito); più avanti, a contatto con l’ipnosi –forse il solo momento “forte” dell’intera mostra– generata dall’accostamento dell’installazione di Mona Hatoum (sabbia e acciaio, ragione ed estasi) con il video di Gregor Schneider, che trasferisce La Mecca –solo digitalmente perché la costruzione vera e propria è stata vietata- nel paesaggio architettonico veneziano, come accade in certi teleri del Carpaccio; infine, dove compaiono il raffinato video-mandala di Shazia Sikander, che sta tra Escher, certe fluorescenze postmodern e un nitore da cartoon, e la sala, nel buio, che Carlos Garaicoa veste di tante guglie fantasmatiche come piccole lampare della sera. Volendo esagerare, ci sono persino l’imenoplastica (Leone d’oro) proposta da Regina José Galindo come una sorta di infibulazione hi-tech, il gigantesco lampadario composto di soli assorbenti interni di Joana Vasconcelos, la microscopica “perla a piombo” di Bruna Esposito e la grande astronave (ma tu guarda, è madreperlacea anch’essa) di Mariko Mori.
pericle guaglianone
mostre visitate il 9/10 giugno 2005
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Personalmente è piaciuto tantissimo il video di Runa Islam !!!!
Ma Eija Lisa-Athila è piaciuta solo a me???