A loro modo, sorprendono. O almeno, si direbbe, fanno la loro figura. E questo in una Biennale tiepidina che non spossa, ma neanche resta impressa, non è poco. Così non dispiace affatto d’imbattersi nelle Ginkgo Pictures degli inossidabili Gilbert & George (nati rispettivamente nelle Dolomiti, in Italia nel 1943 e a Devon, in Inghilterra nel 1942), padroni di casa del Padiglione della Gran Bretagna.
Colori smaltati (rosso lacca, blu elettrico, giallo semaforico), qualche fondo tutto d’oro e poi un tripudio di vegetazione d’ispirazione Art Nouveau a fare da filo conduttore: foglie di ginkgo, appunto, fossili viventi secondo Charles Darwin perché capaci di vivere per millenni. E di sopravvivere, anche. Per esempio –come è accaduto- all’esplosione della bomba atomica su Hiroshima. Ma non è solo questione di longevità o di resistenza, piuttosto qui si allude all’eternità, alla potenza alla forza. Un simbolo, quello della foglia di gingko, che, ripetuto ad oltranza, diventa una decorazione sontuosa, sfolgorante. Di contro, ecco Gilbert & George in stato di grazia: si ergono giganteschi, si sdoppiano a mo di macchie di Rorschach, facendo perno su un’asse di simmetria sempre, significativamente, evidente. In questa costruzione rigorosa (tanto da evocare in un istante una galleria di archetipi) mascherata da caos, s’incastrano pure scritte enigmatiche e simpatici guys con felpe, pantaloni oversize e scarpe da ginnastica che fanno tanto streetstyle. Promossi icone pure loro, in questo pantheon surreale.
Sfodera un asso anche il Padiglione degli Stati Uniti, che ospita una personale di Ed Ruscha (Omaha, Nebraska, 1937). Titolo programmatico, Course of Empire, per una serie di tele che dialoga con un omonimo ciclo realizzato agli inizi dell’Ottocento dall’angloamericano Thomas Cole.
Dove quest’ultimo denunciava la perduta innocenza e il danno procurato ai grandi paesaggi americani, Ruscha registra con nitore implacabile edifici, fabbriche, cieli, insegne. Prologo in bianco e nero, con i quadri Blue Collar e poi la serie di dipinti realizzati tra il 2003 e il 2005. Il pittore zooma sul dettaglio di un palo dell’elettricità affiancato dal ramo sottile di un alberello (Site of a Former telephone both, 2005), si concede un orizzonte completamente infuocato (The Old Tech-Chem Buildings, 2003), si sofferma sulla griglia di una rete di divisione, come fosse uno schermo attraverso cui guardare (The Old Trade School Building, 2005). Eppure aldilà della consueta, esatta costruzione geometrica (tutti parallelepipedi, bassi e allungati) emerge una sorta di crepuscolare malinconia, come se questa volta, più di ogni altra, l’artista si fosse lasciato andare ad un tono dolcemente elegiaco.
Semplice, ma di forte suggestione l’installazione video di Rebecca Belmore (Upsala, Ontario, 1960) nello spazio del Padiglione Canadese: piccola donna dalle grandi energie, Belmore è figura di spicco nel movimento di rinascita dell’arte dei nativi nord americani. Ed in Fountain elemento naturale, forze ancestrali e contemporaneità si fondono con esito felice, istantaneamente e perfettamente. C’è una parete scabra di roccia bianca, c’è una proiezione video e c’è una cascata d’acqua, continua, che è una cortina impalpabile, ma persistente, tra lo spettatore e le immagini filmate. Che raccontano dell’oceano freddo, del fuoco e di un liquido rosso vivo, vischioso come sangue, gettato contro chi guarda con violenza, come fosse la fase ultima e necessaria di un rituale.
S’attraversa in silenzio il Padiglione dell’Australia, protagonista il giovane Ricky Swallow (San Remo, Victoria, Australia, 1974) capace di tessere un percorso godibile e sottilmente straniante sul tema del tempo. Fascinazione antichissima ed ossessione moderna, in una galleria di sculture in legno (condotte con portentoso virtuosismo) che ricalca forme e topoi della natura morta fiamminga (dai frutti, ai teschi) unendo riferimenti d’autore al vissuto personale. Il risultato –aldilà di un’analisi di tutti gli elementi che finirebbe per diventare sterile elencazione– è abbastanza notevole, in bilico tra colto divertissement concettuale e lucida riflessione. Lasciando proprio all’autore la possibilità ultima di mischiare le carte. Come quando nell’intervista pubblicata all’interno del catalogo può citare tra le proprie fonti di ispirazione teschi e scheletri riprodotti sulle tavole da skateboard della Powell Peralta.
mariacristina bastante
mostre visitate il 10 giugno 2005
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