Non aprite quella porta. D’accordo, non c’è altro modo per entrare nel padiglione tedesco, ma sappiate che lo fate a vostro rischio. Di divertirvi. Perché, spiacenti di guastarvi l’effetto sorpresa, ma dietro quell’uscio il giulivo Tino Sehgal ballet è pronto ad infilarvi nelle orecchie il tormentone della Biennale 51: “This is so contemporary, contemporary, contemporary”. Così, tra zompetti e sussurri, lo sfizioso refrain chiama all’interazione, assieme al dissacrante abbordaggio attuato dai sondaggisti-promoter di This is exchange, mercanti in un tempio che tale non è più. Purtroppo, la vetrina del Neue Kurs teutonico scintilla solo a metà, visto che a far da compagno al giovane araldo dell’effimero è Thomas Scheibitz, debole e citazionista pittore e ancor meno esaltante scultore, che nel luminoso vano d’ingresso accozza una sparpagliata scogliera di giocattoloni geometrici, annacquandola di colore fosforescente e battezzandola con un impropriamente sofisticato arzigogolo concettuale quale Il tavolo, l’oceano e l’esempio. Is this so contemporary?
Comunque sia, grazie a Sehgal, almeno stavolta non saranno soltanto le polemiche d’ordinanza a far da colonna sonora alla kermesse: potete star certi che quel motivetto continuerà a ronzarvi nel cranio anche mentre vi avvicinate al favoloso mondo di Annette Messager, che punta sul rosso e vince.
Proprio così: uno dei Leoni d’oro ha difatti miagolato la Marsigliese, per un progetto al quale va innanzi tutto riconosciuta squisita sagacia diplomatica, per aver scelto come leit-motiv la più tricolore delle favole, quella di Pinocchio. Con una seduzione al neon sovrapposta all’epigrafe nazionale sul pavillon, la Messager attrae dunque lo spettatore nel suo “Casino”, trasformando in tre mosse un apologo per fanciulli in un itinerario di rigenerazione dai vaghi accenti femministi. Si parte con una sorta di luna park matelassé dal ritmo monotono ma spensierato, con tanto di maschere “alla veneziana” e il burattino coricato su una circolare tessile; ma il cuore dell’opera è la seconda tappa in cui, sotto il fluttuante ventre ermafrodito della balena, in un fervore intermittente di bolle e vesciche affiora lentamente l’ekfrasis oggettuale della storia, mentre dalla stanza accanto s’odono tonfi inquietanti. È l’epilogo: il plot collodiano sterza verso il Grand Guignol e, come in ogni palingenesi o metamorfosi che si rispetti, non si sfugge allo smembramento, testimoniato dai pezzi dell’ex-fantoccio (finalmente incarnatosi nel bravo bambino) che sobbalzano e s’afflosciano scompostamente su un tappeto da circo, sparati in alto da uno sbuffo vigoroso.
Più rarefatta e sobria l’atmosfera del padiglione spagnolo, in cui (sebbene ascrivibile alla generale dominante retrò e non immune dalla strizzatina d’occhio al genius loci) si fa apprezzare per rigore e pregnanza di contenuti Antoni Muntadas, talché il monito strillato sulla facciata – “Attenzione: la percezione richiede impegno” – dietro l’impatto minatorio pare propedeuticamente suggerire una traccia eidetica.
Dentro, l’elogio del transito riesce a trovare organicità pur nell’estrema articolazione spazio-temporale, in una successione di ambienti imperniati sull’asettico terminal aeroportuale dei “Giardini” dove, sul rovescio delle cartoline dalla laguna degli eletti, non vengono dimenticati i reprobi.
E sulle trasfigurazioni della memoria insiste lo sviluppo del lavoro, con soda eleganza e vario dispiego di media. Nessun elemento dev’essere lost “On traslation”, ma guai a postulare risposte certe, perché «i punti interrogativi fanno parte dell’intenzione dell’opera», anche se l’“instabile” Muntadas finisce poi col riversare nell’immagine della biblioteca come epitome del mondo la tara, tutta latina, dell’attitudine alla catalogazione, né rinuncia a tirare bordate polemiche. A La mesa de negociaciòn, tavola rotonda del Sapere, molti devono infatti accontentarsi delle briciole che cadono dal desco, sul quale le macroaree del villaggio globale sono raggruppate per discriminanti economiche e culturali. Disuguali pure le gambe, pareggiate da pile di libri, zeppe abituali ma qui aspre e interessanti (sbirciate autori e titoli impressi sulle copertine…). Finale da Aplauso, con frames di battimani sarcasticamente tributati alla silenziosa e negletta tragedia quotidiana della Colombia. Clap clap. Castigat ridendo mortes. Bene, bravo. Ma niente bis, por favor.
anita pepe
mostre visitate il 9 giugno 2005
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Complimenti Anita: recensione fresca e brillante, equilibrata, critica (garbatamente stroncante) nella giusta misura, senza entrare nella sterile polemica. Soprattutto precisa. Pienamente è stato colto (e raccontato) lo spirito dei tre padiglioni, dal "tormentone" (che ha messo in secondo piano le fiacca installazione, tanto che molti infatti non l'hanno neanche notata, domandandosi in seguito: "che altro c'era nel padiglione!?") all'applauso finale (che da parte mia va anche a te).
Se l'articolo deve essere accattivante non mi sembra che l'obbiettivo sia stato centrato! L'autrice a parer mio si rotola in un'orgia di paroloni eruditi..ma l'articolo(ho letto il vademecum..)non doveva essere semplice e chiaro? Mi sembra che lo scopo qui sia dar sfoggio di cultura..Brava, eruditissima..ma puoi tradurre in un linguaggio più semplice?
Forse andrò a vedere la Biennale, volevo farmene un'idea, purtroppo non ne è venuto fuori niente( o quasi)..
Un consiglio a tutti coloro che scrivono d'arte: leggete Gombrich o Panofsky hanno un linguaggio chiarissimo. In fondo la bravura nello scrivere credo risieda in questo trasformare in una parola comprensibile a tutti impressioni che sfuggono ai più (o che non riescono a comunicare..
Buon lavoro.
Saluti, E. D. B.
Sì, infatti. Anche l'articolo su Golia è scritto più per se stessa che altro... Vezzo fastidioso.
Evviva Panofsky, evviva Gombrich, evviva la Pepe!
"aho, io mica me fido de chi nun vòle trovà er Pepe in cucina"
Una grande tristezza alla Biennale 2005: bellissimo portale il padiglione "Germania", entri e quattro pagliacci ti assalgono con il loro baccano (nemmeno in tedesco, loro berciano in inglese), tu li ignori, prosegui infastidito, giri attorno ad un accumulo di immondizia multicolore, allora vai a vedere cosa c'è nella sala adiacente... vuota! Se questo è quanto di meglio può offrire l'arte tedesca... ma chi è che seleziona gli "artisti" che dovrebbero partecipare alla Biennale? E perchè dovremmo supporre che chi espone alla Biennale di Venezia rappresenti il meglio dell'arte europea?
Non è l'Europa ad essere stanca, ma lo sono gli artisti, costretti ad esporre in bar e ristoranti e a vedere i propri spazi usurpati, ormai da 50 anni, da parolai, truffatori e imbonitori di ogni risma.