Susan Sontag, nel suo celebre saggio On Photography, parlando della Arbus la definisce una auteur, così come lo era stato Morandi. Artisti che hanno dedicato la loro vita a rappresentare sempre il medesimo soggetto. Credi che questa definizione sia applicabile anche a te?
Ho alcune remore nell’accettare l’etichetta di auteur, ma se per facilitare il discorso possiamo cercare un parallelo fra le bottiglie di Morandi, o forse ancor meglio, fra gli oggetti dei coniugi Becher e i miei frammenti di paesaggio urbano, cioè il soggetto preferito e stabilmente presente nel mio lavoro, penso di condividere con quei maestri storici l’ossessione per parole come serialità, ripetizione, ritualità. In ogni caso fin dall’inizio ho inteso il far fotografie più come un flusso che come opere singole. Mi piace che le mie fotografie si esprimano in un progetto corale.
Ciò che si legge dietro il titolo, forse un po’ troppo vizioso, di questa Biennale è un approccio all’arte fondamentalmente emotivo. Eppure il tuo modus operandi è generalmente sistematico, razionale. Beirut 1991 rivela un sentire diverso -ulteriore- rispetto agli altri tuoi lavori, frutto evidentemente della situazione storica in cui ti sei trovato a operare. Eri consapevole, allora, che tale sentire sarebbe entrato a far parte delle tue immagini?
Penso che il mio lavoro in apparenza freddo, controllato, razionale (sentimentalmente parlando, vengo considerato il più “nordico” dei fotografi italiani) non lo sia veramente fino in fondo. Ferdinando Scianna, per esempio, sostiene che dalle mie fotografie traspare a volte una carica di sensualità, sottolineata dal punto di vista o dal chiaroscuro in cui sono immerse le architetture. Il caso di Beirut è del tutto particolare, un caso unico. Non ero mai stato impegnato in un teatro di guerra, all’inizio ero molto emozionato e confuso: non sapevo come interpretare il sentimento di dolore che il paesaggio trasmetteva. Ma dopo qualche giorno di esitazione sono riuscito a trovare il giusto percorso.
Che peso hanno avuto nel tuo lavoro Atget e de Chirico?
L’influenza di Atget è stata chiara, diretta in modo inequivocabile, anche se quel mirabile equilibrio tra rigore morale, rispetto del soggetto e costruzione estetica che impregnano tutta l’opera di Walker Evans, rimane sempre per me il modello di riferimento al di sopra degli altri. Per quanto riguarda de Chirico, e forse anche gli altri pittori della metafisica, credo che una parte del mio lavoro del passato, quello che ha insistito sui temi della contemplazione, della lentezza e della sospensione del tempo, e soprattutto che ha cercato il dialogo con i luoghi, ha trovato una forte empatia con quei maestri degli anni ’30.
Una delle critiche più frequenti che è stata fatta a Robert Storr in occasione di questa Biennale è quella di non aver incluso i nomi di molti artisti emergenti. E quindi entriamo nel campo minato dei “se”. Se non fosse stato così, chi avresti voluto al tuo fianco a rappresentare la nuova fotografia italiana?
È difficile per me dire cosa sia la nuova fotografia italiana. La fotografia di paesaggio, quella che si è dedicata poeticamente e criticamente all’identità dei luoghi, ha occupato la scena nazionale per oltre 20 anni, trascinando nella sua evoluzione diverse generazioni di autori, e in alcuni casi, specialmente all’inizio, proponendo esiti interessanti. Quello che è avvenuto dopo, e sta avvenendo ora, mi sembra essere un grande cantiere di sperimentazione, probabilmente disinteressato a qualsiasi necessità rifondativa, ma che vive positivamente un proprio cammino nell’arte, accettando o subendo la frammentazione dei linguaggi. Tutto può diventare allora interessante, all’interno del lavoro di ricerca, ma diventa molto raro, se non impossibile, trovare qualcosa di rivoluzionario. In questo contesto, per me spesso indecifrabile, se dicessi dei nomi a caso, farei torto a molti altri.
a cura di francesca mila nemni
*foto in alto: Gabriele Basilico – Dancing I (particolare) – 1978 – courtesy Jarach Gallery, Venezia
[exibart]
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In una intervista di Myriam De Cesco a proposito dell'obbiettivo italiano, nel lontano 15 agosto 1978, Luigi Carluccio affermò che la fotografia italiana aveva le carte in regola per confrontarsi con quella americana. L'allora direttore della Biennale,nonchè curatore della mostra di fotografia di quell'anno, affermò: "Si va avanti soltanto per iniziative personali. Eppure si ottengono risultati spesso eccellenti che hanno poco o nulla da invidiare all'opera dei grandi americani. Ab-
biamo diversi filoni di artisti nostrani molto buoni:i paesaggisti della scuola di Modena con Franco Fontana e Luigi Ghirri, i gruppi di documentaristi che riescono che riescono a comporre per immagini la condizione attuale della vita come quello di Mario Cresci a Matera e di Tateo a Salerno, gli analisti-concettuali come Luca Patella e Lia Rondelli, artisti come Fulvio Roiter e
Mario Giacomelli che "ascoltano" le immagini con l'occhio" Seguono significative rifles-
sioni di Daniela Palazzoli sulla condizione esistenziale dei fotografi italiani, citando anche la difficoltà di Scianna di fare il libro con Sciascia. Conclude con l'augurio che
"il pubblico e soprattutto chi fa cultura per il pubblico riconosca il loro valore".
dal settimanale "Panorama del 15 agosto 1978,
articolo a firma di Myriam De Cesco, in occasione della grande mostra sulla fotografia
americana.
Antonio Tateo