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biennale_padiglioni Vicino (e lontano) Oriente
biennale 2007
Dalle proposte della nuova arte cinese alla pop-paleontologia del Padiglione Corea. La memoria del Giappone e le metafore d’Israele. Ecco una selezione delle proposte che, in Biennale, provengono da oriente…
Sfidano l’incognita di un futuro racchiuso nel quotidiano -ironiche, tecnologiche e poetiche- le artiste cinesi scelte da Hou Hanru per Everyday Miracles, nel padiglione cinese all’Arsenale. Tutte donne e tanti video. Tranne l’installazione di Yin Xiuzhen (Pechino, 1963) che fa piovere dal soffitto del deposito di petrolio una flotta di “missili” colorati che ricordano l’antenna della famosissima TV Tower di Pudong, “nuovo” quartiere di Shanghai (ormai vecchio, visto che è del ’90). Corpi volanti sulla traiettoria di doppi sensi, realizzati come sono con stoffe, frammenti di abiti (simbolicamente il femminile), ma dalla forma cilindrico-fallica (il maschile). Un grido silenzioso contro la violenza, per l’artista. Nello stesso scenario di cisterne metalliche arrugginite si alternano anche i video di Kan Xuan (Anhui, 1972, vive tra Pechino e Amsterdam) – a partire da Kan Xuan Ai! (1999) fino a In focus, out focus (2007)- sconfinamenti autoreferenziali all’interno di visioni contaminate dalla fantasia.
Nel vicino Giardino delle Vergini, le installazioni dal contenuto sociale delle altre due artiste. Le premièr voyage (2007) di Shen Yuan (Fujian 1959, vive in Francia) è un grande biberon smontato (c’è anche il ciucciotto) all’interno del quale un video affronta il tema dell’adozione dei bambini orientali da parte di genitori occidentali, realtà in crescente aumento. Riflessioni che si soffermano sulle differenze culturali che questi bimbi si troveranno ad affrontare, perché malgrado -ovunque- la società sia ormai multietnica, i pregiudizi sono ancora molto radicati, discriminazioni razziali incluse.
Bianco e di materia plastica, l’igloo dove Cao Fei (Guangdong 1978) invita ad entrare per lasciarsi assorbire nell’ennesima realtà virtuale (tema a lei particolarmente caro). In China Tracy (2007) il confine tra realtà e alienazione internet è quasi inesistente. Ognuno ha la possibilità di crearsi una nuova identità, questo è quello che sostiene Second Life, l’universo parallelo on line che l’artista prende in prestito. Un mondo virtuale in 3D -“realmente” popolato da oltre 7 milioni di utenti- ma che finisce per avere gli stessi codici stereotipati, le stesse regole della vita reale. Ma, allora, che gioco è?
Parlando, invece, di tecnologia e cartoon, non c’è luogo più adatto del Padiglione della Corea, tra gli ultimi ad essere stati realizzati, nel 1995, nei Giardini della Biennale. The homo species, a cura di Soyeon Ahn, è una sintesi del lavoro di Hyungkoo Lee (Pohang 1969, vive a Seoul). L’artista parte dalla protostoria “pop paleontologica” nella rincorsa di un’era post-futura. Nella prima sala un animale -o meglio il suo scheletro- più grande ne insegue uno più piccolo, nel buio illuminato dalle ombre. La sagoma del gatto evoca quella di Tom e quella del topo la versione fossile di Jerry. La contaminazione oriente/occidente in una simbologia che non ha etichette, né tempi: vittima e carnefice.
Nei cartoni animati si tende ad umanizzare gli animali, trasformandoli in proiezioni caricaturali dell’uomo con tanto di vizi e virtù. Invertendo i processi, l’artista coreano, fa risalire proprio a queste creature l’origine della specie umana. Il resto è sperimentazione in un laboratorio pieno di provette, filtri, tubicini… -una sorta di asettica “camera bianca”- HK Lab-CPR (2001-2007), da cui esce lo stesso Hyungkoo Lee (metaforicamente parlando), dopo aver indossato l’elmo di vetro trasparente, per vagare per Venezia così come appare nel video Helmet – WR (2007). Tutt’altra storia quando non si tratta di finzione. Is there a future for our past? The dark face of the light è il titolo del padiglione Giapponese. Per Masao Okabe (Nemuro – Hokkaido 1942) è un dovere non dimenticare il passato, la memoria storica. Parla di lato oscuro della luce, l’artista, mentre trasforma l’edificio progettato da Takamasa Yoshizaka. La grande stanza diventa un archivio con i 1.400 disegni ottenuti strofinando con la matita il foglio di carta sulle tracce dei “reperti” del porto di Ujina, siano essi anche fili d’erba. Raccolti nei book sono esposti nella scaffalatura di legno, mentre una lunga fila di pietre recupera quella che era la banchina della stazione della stessa città, all’indomani del bombardamento atomico. Particolarmente forte l’impatto emotivo della tecnica del frottage.
Altro site specific quello di Yehudit Sasportas (Ashdod 1969, vive tra Berlino e Tel Aviv), I Guardiani della Soglia, che prende spunto dal minimalismo di Zeev Rechter, che nel ’52 firmava il Padiglione di Israele, per sconvolgere l’ordine delle cose. Utilizzando varie tecniche -dal disegno a china alla scultura- l’artista propone un viaggio metaforico nella natura all’insegna del blu, del nero e dei grigi. “Le lunghe aste che fanno parte dell’installazione sono lo sviluppo tridimensionale di alcuni elementi presenti nei disegni della Sasportas e rappresentano i guardiani della soglia.” -spiega la curatrice Suzanne Landau- “Tutto il suo lavoro è giocato sul dualismo, sul rapporto tra bi-dimensionalità e tri-dimensionalità, tra cultura e natura.”.
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manuela de leonardis
[exibart]