Azzeccata o fuori fuoco che sia, la scelta di un titolo (di un libro, di un film o di una mostra) merita comunque attenzione. Certo, non lo scrupolo col quale vengono dissezionati i cosiddetti “contenuti” (parola -diciamolo- volgarotta,
superficiale e un po’ pesa). Ma almeno due righe di riflessione, in occasione di una kermesse internazionale d’arte visiva, considerato che -come afferma Roland Barthes- “
l’arte è il dibattito, continuo e vario, tra l’immagine e il nome”, pare proprio il caso di scriverle. In fondo, un titolo all’altezza (se non altro delle aspettative) può contribuire alla causa (degli operatori che l’hanno scelto, dell’istituzione che l’ha recepito, dell’ambito espressivo che in esso si vede rappresentata) ma anche fare scuola e, perché no?, storia.
E gli esempi non mancano:
When Attitude Becomes Form,
Vitalità del negativo o
Post-human -annate ’69, ’70 e ’92-, tanto per citare autentiche zampate, sono altrettanti contrassegni in qualche modo
epoch-making.
Si aggiunga che l’arte visiva è un po’ un caso a sé. Con la semiologia sullo sfondo e un secolo di riflessioni incentrate sul significato e sui procedimenti dell’additare (la pipa di
Magritte, l’epopea del ready-made, le investigazioni dell’arte concettuale tutte interne al linguaggio), il cosiddetto
naming applicato ai titoli delle mostre collettive si ritrova a occupare anch’esso una sua crucialità. Il bravo curatore lo sa: per lui si tratta di un passaggio spinoso, per non dire della prova del nove. Non è bene deludere le aspettative, glissare o ripiegare su una rosa di immagini e frasette scialbe e omologate -non del tutto azzeccate, dunque, né del tutto fuori luogo- che sembrano reperite apposta per essere dimenticate agevolmente. A maggior ragione se la collettiva-kolossal di turno non sta in piedi come mostra.
Si prenda la Biennale di Venezia, tuttora l’esposizione d’arte più importante al mondo: da quando si è deciso di dotare ciascuna edizione di relativa intestazione (dal 1978, da
Grande astrazione, grande realismo), le scelte in proposito sono cadute per lo più su soluzioni magniloquenti, ma debolucce.
A prescindere dal livello dell’offerta e dal pedigree del direttore-curatore, la grande mostra internazionale s’è vista affibbiare, negli anni, titoli e sottotitoli che nessuno (o quasi) ricorda. Immagini neutre, di compensato o di circostanza; scatole vuote o pressoché tali, ascrivibili in genere a un fantomatico script temporale (
Futuro, presente, passato, del ’97, ma anche
Presente direzione futuro e
Sempre un po’ più lontano, del 2005) oppure a un ecumenismo tutt’al più
politically correct (
Identità e alterità, del ’95, la pur osannata
dAPERTutto, del ’99, la stessa
Sogni e conflitti, del 2003). Con qualche lampo qua e là, come lo stentoreo
Platea dell’umanità di Harald Szeeman (2001) o un bel sottotitolo,
La dittatura dello spettatore, ideato nel 2003 da Francesco Bonami.
Ecco. A prescindere da come sono andate le cose va almeno riconosciuto a Robert Storr di aver optato per il taglio serrato e confidenziale, per l’incitamento schietto e vagamente irriverente, per la formuletta tutt’altro che estetizzante. Poteva buttarla in retorica con i soliti futuri presenti o lontani, o magari ricorrere all’immagine autoriale e un po’ sciantosa anche quando
engagé.
E invece no:
Think with the Senses, Feel with the Mind – Art in the Present Tense, il suo chiasmo un po’ ruspante con annessa coda didascalica, se ne sta in bilico tra il pop e la circolarità tautologica, tra l’installazione
conceptual e la bibita in lattina, tra lo slogan pubblicitario vero e proprio (altrettanto sinestetico è, in effetti, “
Ascolta la tua sete”) e il truismo alla Jenny Holzer.
È il classico biglietto da visita che non piace, di quelli che fanno storcere boccucce. Ma è anche una proposta, se non altro di lettura, formulata nel merito, che traduce un onesto voler dar conto dell’incontro con l’opera d’arte senza uscire frettolosamente dal suo raggio d’azione. Un invito, a prenderne sul serio la lettera, a bypassare il pregiudizio -questo sì pacchiano, oltre che paradossalmente “retinico”- secondo cui il sentimento della meraviglia, il filosofico
thàumazein connesso alla problematica del Sublime, non avrebbe cittadinananza in seno all’esperienza
mentale, “fredda”, che caratterizza tanta arte visiva d’après-Duchamp.
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vorrei sottolineare che la dicotomia (sensi e mente) su cui si fonda il titolo della biennale e tutto il suo concept è palesemente vecchio! una concezione positivista (ottocentesca) della percezione che già nietzsche (150 anni fa) ha radicalmente sconfessato!
open your eyes...