Topological Gardens di
Bruce Nauman espande i confini della partecipazione nazionale ben oltre lo spazio tradizionalmente esclusivo del Padiglione, comprendendo le sedi universitarie dello Iuav-Tolentini e di Ca’ Foscari, e lavorando su più livelli di significato, che attivano e trasformano gli spazi e i percorsi della conoscenza in senso sia fisico che immateriale: coinvolgimento degli studenti nella realizzazione e nella ri-creazione delle opere, e sollecitazione del pubblico alla scoperta di una topografia veneziana che esula dai normali tracciati biennaleschi.
Il nucleo dell’intera operazione è il neon del 1967,
The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths, vero punto d’origine del lavoro di Nauman: l’oggetto-opera è fruibile direttamente nello spazio istituzionale, mentre la frase-concetto si può leggere solo al di fuori di esso (un vialetto secondario nei Giardini e la strada sui cui dava la finestra dello studio nella collocazione originaria di San Francisco). Attorno a questo dialogo continuo e fecondo tra
inner e
outer space, a questa condizione di perenne sospensione e sovrapposizione fra realtà quotidiana e arte contemporanea, si sviluppa per cerchi concentrici tutta la mostra.
Un’esplorazione complessa e stimolante per lo spettatore, fatta di rimandi, collegamenti e incroci tra le sedi: così, per esempio,
Fifteen Pair of Hands (1996) del Padiglione si collega spontaneamente all’
Untitled (Hand Circle) dello stesso anno esposto a Ca’ Foscari, mentre il rigoroso e ossessivo video su doppio canale
Think (1993) ai Tolentini richiama l’evocativo e poetico
Coffee Spilled and Baloon Dog.
L’omologia si fa rispecchiamento con la nuova installazione sonora
Days – Giorni (2009), che trasfigura con strumenti semplicissimi ma in maniera sorprendente lo spazio dell’aula magna dello Iuav, e quello gemello di Ca’ Foscari. In questa vera e propria rete di connessioni, che rende le mostre al tempo stesso autonome e parte di un unico sistema fluido e organico, di un “paesaggio”, spiccano alcune “figure”, come il bellissimo trittico video
End of the World (1996) e
Hanging Carousel (George Skins a Fox) (1988).
Il Padiglione canadese di
Mark Lewis,
Cold Morning, è caratterizzato dalla sobrietà e dalla semplicità.
Una coppia d’innamorati che pattina sul ghiaccio al tramonto in un brillante contesto urbano (
Nathan Phillips Square, A Winter’s Night, Skating, 2009). Un lungo piano-sequenza in cui lo sguardo della cinepresa scorre sul movimento della strada sottostante, lungo una finestra del grattacielo di Toronto progettato da
Mies van der Rohe (
TD Centre, 54th Floor, 2009). Una “natura morta” contemporanea – quasi un
Jeff Wall animato – costituita dal giaciglio di un senzatetto con tanto di bicchiere di caffè e tombino fumante (
Cold Morning, 2009). Due gruppi di bellicosi abitanti degli
slum, uomini e donne, giovani e di mezza età, che inscenano una danza aggressiva (
The Fight, 2008).
È una mostra estremamente godibile, funzionale soprattutto come introduzione all’opera dell’artista.