Usciti dalla Galleria Contemporaneo di Mestre, l’apprensione assale il visitatore. Il bombardamento d’informazioni all’orizzonte nella neocapitale dell’arte
d’aujourd’hui (Berlino) avrebbe compromesso la memoria di
Alban Hajdinaj (Tirana, 1974) e della sua personale compos(i)ta di foto, video, ready made, nonché del visionario testo in catalogo?
No, le opere dell’artista, irrobustite dalla presenza a Manifesta 4 e a
Eurasia al Mart, non rischiano di sparire nei buchi neri della mente, ancor più per chi le avesse notate al Padiglione albanese della Biennale di Robert Storr. I lavori di Hajdinaj, collaterali a questa Biennale di Venezia, restano in testa come un’appendice al saggio-culto di Walter Benjamin: l’arte s’innesta oggi sulla (sua) riproducibilità tecnica.
Perciò, scordarsi di
Man in Glasses è improbabile quanto l’oblio del logo KFC-Kentucky Fried Chicken, o la non-associazione immediata Zara-pronto-moda a una shopping bag dal marchio planetario, benché fuso in un nucleo d’indistinta materia (
Matter, 2007). A fare di un sacco usa-e-getta un’opera simbolo del consumismo ci hanno pensato
Sylvie Fleury e
Jonathan Seliger; Hajdinaj resta un osservatore neutrale, mentre i nettissimi confini dei brand svaniscono in colori e linee impressi dal manzoniano dito d’artista, che svincola – con gusto neo-dada – l’immagine-logo dalla sua fissità per farne tabula (semi)rasa di un pittore fantasioso.
La rivoluzione
d’après papà Marcel non si limita ai pastelli sull’
objet trouvé (notevole la scena di genere
L’origine de la gauche et de la droit ricalcata sui cavalli di Levi’s);
Duchamp fa capolino sul lato opposto, negl’incontaminati
Ready made, pagine fitte di nozioni che tormentano gli studenti d’ogni tempo (e luogo), spingendoli a sfogare la noia sull’unica figura presente, sia l’effige di Victor Hugo, di Erasmo o Lutero.
Le icone dei maestri, assunte nel Dna dagli scolari, rivivono in meta-ritratti
già-fatti che invadono lo spazio bianco e oltrepassano i limiti del politically correct con l’ingenua purezza di chi, in un’ex dittatura, trasforma in clown l’Hugo abolizionista della pena di morte. Non fosse poi per le righe in albanese, i tratti geografici delle antologie non sarebbero ravvisabili, né collocabili al pari dei
verso dei quadri della Galleria Nazionale di Tirana.
Unico indizio qui, oltre le etichette, i “
sujets trouvés”: nudi femminili e paesaggi impressionisti banditi dall’iconografia ufficiale fino al 1990. Prima che un ventennio spalancasse gli “ismi” della storia dell’arte, esporre la
Back side collection (2009) di Hjdinaj a Tirana equivaleva a proporre in un museo un orinatoio capovolto e chiamarlo
Fontana.
“
Le cose stanno cambiando”, sostiene il curatore Riccardo Caldura, “
lo documenta la microfenomelologia del quotidiano di Alban”.
Alisa e Sarah, protagoniste del videodittico in mostra, snocciolano i nomi dei paladini del wrestling come i versetti del Corano ridotti a incomprensibile filastrocca trasmessa dal nonno.
L’Albania del XXI secolo è un non-luogo fra tanti, dove in giugno maturano le ciliege, i ragazzi scarabocchiano i libri e, per gli artisti, forme e colori sono chimere da inseguire.