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Inverte elementi e principi: essa dilata e proietta le forme fuori di sé stesse invece di ridurle progressivamente ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato”. Così recita il principio di anamorfosi secondo Baltrusaitis, le cui rudimentali ipotesi trovano riscontro nella prospettiva intuitiva della prima metà del XV secolo, per poi esser applicata da
Leonardo nel
Codice Atlantico.
Poetica dell’illusione, scienza della deformazione, medium che apre orizzonti alla verità occulta, approfondendo i meccanismi della percezione, l’anamorfosi viene presa in esame da James Putnam che, nella fatiscente location di archeologia industriale della Gervasuti Foundation (un finto ente inventato di sana pianta per potere essere accolti dalla Biennale come evento a latere), colloca le opere di nove fra i più interessanti artisti della scena inglese. Coinvolti dal concetto di distorsione come espressione creativa inerente la tradizione pittorica veneziana del XVI secolo e liberamente reinterpretata. Non sempre con esiti originali.
Apparentemente familiari, a uno sguardo più attento le sculture di
Alastair Mackie si rivelano tutt’altro che riconoscibili, nel tentativo di esplorare la decadenza esistenziale e l’inevitabile scorrere del tempo. Alla tematica del doppio e alla distorsione che lo specchio conferisce alla realtà si riferisce
Metamorphosis: quattro teche vitree su piedistallo, utilizzate negli anni ‘30 per la tassidermia, sono trasfigurate dalla carta argentata che riflette l’immagine dello spettatore.
Stesso principio di deformazione della realtà che rispecchia l’oscura visione del mondo per
Mat Collishaw, che trasforma un tavolo vittoriano in un marchingegno astruso, con un cilindro metallico incastonato al centro, a riflettere una scena di tauromachia. Gioca invece d’ironia la coppia composta da
Tim Noble e
Sue Webster, che da cumuli di spazzatura trae l’essenza creativa. Come in
Metal fucking rats, dove le ombre di due ratti in piena copula emergono grazie alla luce del proiettore puntato su un mucchio di rottami saldati.
Ancora materiali di recupero – in questo caso d’epoca vittoriana – per la pittura straniante di
Oliver Clegg, generata dal rapporto tra superficie e soggetto, come in
Neveroddoreven, emblema di nostalgia e memorie perdute. Più prevedibile l’installazione di
Janet Cardiff e
George Bures Miller, che prendono alla lettera la tematica: un amplificatore può essere attivato tramite un pedale, riproducendo le note distorte dell’inno americano a opera di Jimi Hendrix nella tre giorni di Woodstock.
Concludono
John Isaacs, con l’imponente e austera scultura
Metamorphosis, placcata in oro, che avrebbe meritato uno spazio di maggior respiro; e
Gavin Turk, con l’installazione-laboratorio che vede protagonisti quindici busti in creta sapientemente deformati per l’occasione. Ma forse non abbastanza
d’invenzione, per dirla con Leonardo.